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UN’OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR

Pubblicato il 14 dicembre 2006 da Sara Ceracchi


UN'OTTIMA ANNATA - A GOOD YEAR

Di certi film si può dire tutto e il contrario di tutto: è questo l’innegabile paradosso su cui si regge la critica cinematografica e la critica in genere. Ma è difficile contestare il fatto che l’ultima fatica di Ridley Scott sia forse il peggior film del regista fino ad oggi. Stando a quel che dicono Scott e l’interprete principale, Russell Crowe, il film è stato davvero sentito dall’autore e produttore, che lo pensava da anni, e lo riservava proprio a una nuova collaborazione con l’ex gladiatore: a quanto pare tutta questa passione non ha però giovato alle sorti della pellicola, che non ha neanche quella sincera e irresponsabile suggestione per i più semplici piaceri della vita che vorrebbe propugnare.
In Un’ottima annata- A Good Year si capisce immediatamente dove si va a parare, diremmo a partire dalla stessa locandina del film, in cui Russell Crowe stringe in un appassionato abbraccio Marion Cotillard, sullo sfondo di un assolato vigneto: la deliberata banalizzazione di sentimenti e valori è la cifra stilistica del film, che come l’etichetta di una bottiglia di Bandol, vorrebbe convincere, non si sa bene a che scopo, che esiste un posto al mondo dove tutto è buono quanto il vino che vi è prodotto.
Crowe è Max Skinner, ed è quello che si definisce uno squalo della finanza sulla piazza londinese: la sua vita, nel colore bluastro/metallico dei suoi uffici, è scandita da transazioni finanziarie, da caffè espressi, vessazioni regolari ai suoi sottoposti (che appella come “mezze seghe” in qualsiasi occasione), duelli verbali al telefono con i suoi avversari che lo redarguiscono per le sue molte mosse sleali. Quando riceve la notizia della morte del suo unico parente, lo zio Henry (un Albert Finney che fa sempre la sua figura, con la sua mimica infida ed impertinente ad attenuare il patetismo degli interminabili flash-back che puntellano il film), Max deve andare a prendere possesso dell’eredità che gli spetta di diritto lì in Provenza, dove ha passato l’infanzia con lo zio. Qui il paesaggio è dorato, la gente è simpatica e si bacia tantissimo, le case sono antiche, grandi e disperse nei vigneti, il vino è buono e sembra regolare la vita di chiunque: il nostro, come un novello “Rossello O’Hara”, ritrova in quest’angolo di Francia le gioie della terra. E come non prevedere che il caratteraccio cinico e materiale di Max, deciso a vendere il casale con vigneto ereditato, non si sciolga qui al calore del sole, dei ricordi e della bella di turno, laboriosa ristoratrice di paese, guarda caso acerrima nemica del Mc Donald?
Ecco, Un’ottima annata, per quel che concerne il plot, è tutto così: si regge su una trama esilissima e prevedibile nel raggio di un’ora e mezza di proiezione, tutta telefonate, riunioni, siparietti sparsi, abbozzi d’intreccio che iniziano e non continuano, da onniscienti anziane voci, sagge/ironiche, che provengono dal passato e giammai possono avere torto. D’altra parte non sono nemmeno questi gli elementi che penalizzano maggiormente il film. Il problema principale sta nel punto di vista dal quale questa storia è raccontata, che non è quello di Max, come si potrebbe pensare, e neanche quello di un londinese ammorbato dal maltempo della City che da un giorno all’altro si riscopre uomo sensibile al sole dei vigneti francesi: sebbene Scott sia inglese, l’ottica del film è smaccatamente americana, ed è da questo che scaturisce la rappresentazione pittoresca dell’Europa rurale e della Francia provenzale in particolare, come di un mondo nel quale rifugiarsi per sfuggire all’artificiosità della società capitalistica più forsennata. E non si capisce come un autore quale Ridley Scott abbia potuto semplificare in modo tanto dozzinale l’aspetto dell’umanità occidentale, contrapponendo la negatività di uno stressante ufficio di Borsa al dolce languore di un vignaiolo (servitore, quindi anche un po’ scemotto) che intona canzoncine alle viti per farle crescere meglio.

Tutto il racconto è permeato dalla volontà di escludere ogni contro della società moderna – urbanizzazione, gestione selvaggia dei capitali, inquinamento, guerre, fame e sete – da un angolo di paradiso riservato solo ai pochi fortunati che possono permettersi un casale da cinque milioni di euro in Provenza, col conforto però di tutti i pro della società consumistica: gli altri crepino pure tutti, nel traffico, negli appartamenti/loculi, nei panini di Mc Donald inghiottiti senza masticare tra una riunione e l’altra.
E dire che la forza del miglior cinema statunitense sta in quelle storie che evidenziano come quello americano (e ora anche quello occidentale tutto) sia un popolo naturalmente e storicamente sradicato, e come, sempre con esiti rovinosamente drammatici o comici, esso cerchi di aggrapparsi a delle radici o a dei princìpi che non siano il denaro o il lavoro.
A questo proposito non è possibile non ricordare l’utilizzo simile del tema della Borsa fatto da Antonioni, con ben altro spessore, ne L’Eclisse, film del 1962 (èra di pieno boom e contemporanea destabilizzazione sentimentale). Qui il mondo dell’alta finanza era ugualmente contrapposto all’osservazione del paesaggio umano, naturale e urbano: un mondo silenzioso, curioso e infinitamente minaccioso, almeno quanto le più spregiudicate transazioni di capitale.
Invece nel film di Scott la divisione degli spazi tra i personaggi e i loro caratteri è tanto prevedibile da risultare imbarazzante, così come lo sono i dialoghi, e anche i non rari tentativi di volgere al comico la situazione. Questi ultimi casi lascerebbero sperare in un insospettato sottofondo auto ironico del film, in un tentativo di deridere tutta la superficialità della pellicola: ma si deve presto constatare che Un’ottima annata insiste serissimamente sulle sue miserie, se non altro in quei due momenti in cui si afferma che il vino è l’unica cosa al mondo ad essere sincera, quasi che quello dei trucioli aggiunti dalle industrie vinicole nelle botti, per invecchiare il sapore del vino, fosse un problema inesistente, come tutti gli altri.

Comunque, a Ridley Scott può però essere perdonato questo "inciampo", in virtù del suo passato e in vista delle altre belle pellicole che il suo talento potrebbe offrire in futuro. Perché in fondo la cinematografia americana sopravvive bene anche grazie al fatto di aver sempre alternato alla produzione di un certo spessore quella più ordinaria, “alimentare”, fatta quasi per non perdere il ritmo, e senza per forza puntare al capolavoro: solo per la volontà di fare cinema, sempre e comunque, anche a costo del ridicolo.


CAST & CREDITS

(A Good Year); Regia: Ridley Scott; sceneggiatura: Mark Klein; fotografia: Philippe Le Sourd; montaggio: Dodi Dorn; musica: Marc Streitenfeld; interpreti: Russell Crowe (Max Skinner), Marion Cotillard (Fanny Chenal), Albert Finney (Henry), Tom Hollander (Charlie Willis), Freddie Highmore (Max da giovane); produzione: Scott Free; distribuzione: Medusa Film; origine: USA; durata: 118’.


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