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Una sconfinata giovinezza

Pubblicato il 6 ottobre 2010 da Simone Isola


Una sconfinata giovinezza

E’ possibile ritrovare nella fitta filmografia di Pupi Avati un comune elemento ispiratore: il ricordo nostalgico della giovinezza. Età con la quale Avati sembra avere un contenzioso aperto, un’attenzione particolare e quasi assoluta; passato e presente sono più vicini di quanto sembra, contigui nella mente e nella sua visione del reale. Una giovinezza non riletta mai storicamente ma in chiave essenzialmente emotiva. Un elemento questo che la critica ha sempre stigmatizzato come bolso, trito, espresso con un stile rigidamente classico, poco innovativo. C’è da chiedersi se anche il pubblico la pensa così. In fondo, in questa linea poetica avatiana ci sono opere come Festa di laurea, Storia di ragazze e ragazzi, La via degli angeli. Film che spesso incontrano il favore del pubblico, come Il cuore altrove. Forse questo ritorno nostalgico all’adolescenza non è solo una personale patologia avatiana ma riguarda almeno un paio di generazioni. In sostanza c’è in questi film, così come in Una sconfinata giovinezza, la voglia di riaccendere nello spettatore il ricordo non attraverso precisi elementi storici ma esclusivamente con un’aneddotica che affascina e avvince.

Con Una sconfinata giovinezza il cerchio tra passato e presente sembra chiudersi in una metafora al tempo stesso dolce e terribile. E’ una storia d’amore, di quello con la ’A’ maiuscola, tra il giornalista sportivo Lino e la professoressa universitaria Chicca. Un rapporto fatto di rispetto e di rimpianto per i figli mancati, proprio in una famiglia dove “figliano come conigli”. Ma ecco che lentamente la malattia inizia ad aggredire la scrittura di Lino, a rendere confusa la ricerca delle parole, faticoso il ricordo. L’Alzheimer fa regredire l’uomo allo stato infantile, mentre la donna acquista uno sguardo materno fatto di dedizione e paziente affetto. Chicca si ritrova tra le braccia quel figlio che non ha mai avuto. L’amore coniugale si trasforma in quello da madre in figlio. Avati crede fermamente nel matrimonio, nella famiglia, ma non nega che la parola “amore” muti significato nel corse degli anni; dalla passione si passa all’affetto, alla complicità. Lino e Chicca sono proprio in questa ultima fase, ma il loro è comunque “amore” vero. La malattia non incrina il sentimento ma lo rafforza nella dedizione della donna che si ritrova ancora più unita al suo uomo.
Un’idea narrativa interessante, certo non freschissima ma che pone una sostanziale novità nel percorso di Avati. Il ricordo si lega infatti ad un processo degenerativo della mente; in prossimità del ritorno a casa, Lino si libera di tutti i condizionamenti sociali, della ragionevolezza e del giusto portamento. Torna proprio sui luoghi d’infanzia, alla ricerca dell’amichetto “che fa resuscitare”, del cane ‘perché’, di quella giovinezza che ritroverà per sempre. Giovinezza e morte si contraggono, il tempo stesso sembra dissolversi nelle nebbie dell’Appenino emiliano. Un’ispirazione profonda, sincera, che approfondisce il discorso sulla memoria e sul ricordo del cinema avatiano. Ciò che non convince è proprio la struttura del film, spesso suo punto di forza. Il film sostanzialmente procede su due binari: il presente, con l’avanzare della malattia in Lino, e la rievocazione della sua giovinezza, girata con una fotografia “seppiata” di forte suggestione. Il passaggio temporale avviene però attraverso flashback molto regolari, classici, ritmati, tanto che dopo metà film lo spettatore quasi “attende” il passaggio temporale, che perde così parte della sua efficacia narrativa. L’arrivo a Casa Mazzetti, la zia Amabile che ritrova il diamante tra i vetri dell’auto distrutta, la scoperta del sesso: sono tutti episodi che restano in parte estranei e rendono meno compatta l’opera, che resta quasi divisa di due. Sono i ricordi dello stesso Avati, le radici che non rinnega e che vuole raccontare, aneddoti che non sempre si legano intimamente con la malattia di Lino. Quando ciò avviene, come nella scena in cui Lino e Chicca giocano insieme “ai ciclisti” con i tappi delle bottiglie su una pista arrangiata nel salotto della casa borghese, l’emozione giunge forte e distinta. Peccato perché il tono complessivo del film mantiene, nonostante la materia drammatica, una costante leggerezza, un pudore e una dignità di fondo ci tengono lontani da effetti lacrimevoli, pur con l’ingombrante presenza della musica di Riz Ortolani (enfatica e un po’ melensa).
Estremamente efficaci sono le interpretazioni di Francesca Neri e Fabrizio Bentivoglio, una coppia di attori capaci di recitare per sottrazione, interiorizzando sensazioni e stati d’animo; così come validi risultano gli apporti di tanti interpreti secondari, dal misurato Lino Capolicchio all’estrosa Serena Grandi. Per concludere, l’amarcord avatiano continua imperterrito tra le pieghe della memoria. Questa storia d’amore sofferta e dolorosa, pur mescolando le carte in tavola, non aggiunge o toglie nulla al complesso mosaico di sentimenti che l’autore bolognese compone attraverso i riti, i ricordi, i gesti quotidiani delle persone comuni.

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CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati. Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; montaggio: Amedeo Salfa; fonico: Piero Parisi; musiche: Riz Ortolani; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Maria Fassari, Stefania Consaga. Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Lino), Francesca Neri (Chicca), Serena Grandi (Zia Amabile), Gianni Cavina (Preda), Lino Capolicchio (Emilio), Manuela Morabito (Teta). Produzione: Duea Film, RaiCinema. Distribuzione: 01. Durata: 98’.


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