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Vendicando Angelo

Pubblicato il 23 agosto 2002 da Alessandro Izzi
VOTO:


Vendicando Angelo

Una notte, uno sconosciuto, trafelato, ferito e molto bizzarro, bussa alla porta di Jennifer Barret per comunicarle che lei non è, come aveva sempre creduto, la figlia della ricca coppia di Long Island con cui aveva lungamente convissuto, ma è, al contrario, l’ultimo frutto di un ben più complicato, romantico ed avventuroso albero genealogico. La rivelazione, inaspettata, spalanca, di fronte agli occhi della donna, una realtà che, a primo acchito, non può non sembrarle allettante perché gli agi nei quali aveva consumato, fino a quel momento, la propria viziata esistenza, non avevano fatto altro che procurarle una vita sicuramente altolocata, ma, al fondo, vuota e priva di valori e significati autentici. La scoperta dell’identità del vero padre non è, però, altrettanto rassicurante, perché egli altro non è che il famoso boss della mafia Angelo Allieghieri recentemente assassinato per non chiari motivi. Queste le esili (e abbondantemente risapute) premesse sulle quali Avenging Angelo basa il suo risibile quanto prevedibile sviluppo narrativo: una girandola di situazioni assurde che si susseguono secondo i dettami di un ritmo forsennato, ma mai realmente coinvolgente. Nello spazio della proiezione, infatti, lo spettatore viene letteralmente obbligato a seguire il percorso di una mal calcolata successione di eventi grotteschi in cui gli autori, sfruttando a più non posso un umorismo d’accatto alquanto dadato, si affannano inutilmente a trovare qualche straccio di idea originale. Il film, per la maggior parte della sua durata, appare, in effetti, più una barzelletta gonfiata fino ad assumere le proporzione di un lungometraggio che non quella divertita variazione su un genere (come quello della commedia mafiosa) che, fino ad un certo punto, aveva promesso di voler essere. Della barzelletta, gli autori riescono miracolosamente a far propri tutti i difetti (prevedibilità assoluta, ricorso a stereotipi di varia natura e gioco sul senso comune) e, altrettanto miracolosamente, riescono ad evitare ogni possibile pregio (brevità, non sense, guizzo comico finale). Come sa bene ogni buon comico da cabaret, ciò che fa ridere il pubblico non è tanto la situazione narrata nella gag, quanto piuttosto l’assoluta padronanza dei tempi comici in cui quella stessa situazione viene restituita al pubblico. Insomma, ciò che conduce al riso non è tanto la storia raccontata, quanto il modo di raccontarla: un modo aggressivo veloce, che si scaglia contro l’ascoltatore e ne blandisce l’intelligenza cercando di disorientarne le aspettative. Anche una barzelletta risaputa fa ridere se viene raccontata con giusta conoscenza dei tempi (anzi spesso riascoltare una vecchia battuta è più divertente ed appagante che ascoltarne una del tutto nuova), ma essa non può non apparire stanca e sfilacciata se viene raccontata in modo frammentario e disordinato. Ed è proprio così che gli autori di questo film, in ultima istanza, raccontano la loro esile storia. A questo grave handicap è da aggiungere il peso di un cast molto mal scelto. Stallone è del tutto fuori parte di fronte agli stereotipi del suo personaggio e fa sorridere stentatamente solo quando cita se stesso. Peggio vanno le cose per i comprimari: Madeleine Stowe e un fiacchissimo Raul Bova. E Anthony Quinn è, purtroppo, assolutamente sprecato.

(Avenging Angelo); regia: Martyn Burke; sceneggiatura: Will Aldis, Steve Mackall; fotografia: Ousama Rawi; montaggio: David Codron; musiche: Bill Conti; interpreti: Madeleine Stowe, Sylvester Stallone, Anthony Quinn, Raoul Bova; origine: USA; 2002; distribuzione: CDI - Medusa

[agosto 2002]

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