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Venezia 76 - Fellini Fine Mai

Pubblicato il 31 agosto 2019 da Alessandro Izzi

VOTO:

Venezia 76 - Fellini Fine Mai

Parla in prima persona Eugenio Cappuccio nel suo Fellini Fine Mai.
Lo fa nella consapevolezza che, se veramente vuol dire qualcosa che suoni nuovo su un autore così enorme, bisogna diventare un po’ come Fellini: uno che per raccontare d’altro è sempre dovuto partire da sé stesso. Che è anche un po’ un modo per sottolineare come, per dire la verità, bisogni sempre passare per la bugia.
Consapevole del piglio autobiografico insito nel gesto felliniano, Eugenio Cappuccio ha allora deciso di partire da sé stesso, dalla sua consuetudine con il cinema di Fellini da ben prima della sua esperienza diretta di collaboratore del regista riminese per Ginger e Fred.
Presa in spalla la telecamera, il nostro ha quindi intrapreso un viaggio che è tanto nello spazio (dalla sua Roma ai luoghi cari al cinema dell’autore di 8 e 1/2) quanto nella memoria. Una telecamera puntata sia verso il tragitto intrapreso che sulla persona che lo compie.
Un’operazione, questa, che ha davvero ben poco a che vedere con la pratica oggi giunta a livelli di esasperazione dei selfie ed è, piuttosto, messa in discussione, anche in chiave ironica, della propria stessa posizione di narratore.
L’io narrante, insomma, che è anche soggetto spesso filmato, accetta di decostruire a monte ogni possibilità di assurgere a una posizione onnisciente. Un gesto che certifica non solo l’impossibilità dichiarata di conoscere fino in fondo Fellini, ma anche di conoscere sé stesso e le motivazioni che lo spingono a filmare. Il racconto assume quindi i contorni di un’indagine continuamente messa in discussione, pronta a deridere il suo stesso sforzo conoscitivo che è importantissimo, certo, nel suo anelito alla ricerca, ma destinato sempre in qualche modo al fallimento dal momento che la verità ultima resta sempre sfuggente.

Fellini Fine Mai supera quindi le dinamiche del classico racconto biografico (sia pur filtrato in un’autobiografia ideale). Nella sua prima parte, il ripercorrere divertito le tappe salienti della carriera di un genio è solo apparentemente lineare. Piuttosto la narrazione è costantemente aperta a digressioni ironiche, a frammenti che sfuggono a ogni vocazione scientifica o accademica di raccolta del materiale. Le interviste ai vari collaboratori e allo stesso Fellini non sono montate secondo un percorso esplicativo, ma puntano piuttosto a rivelare i non detti, le contraddizioni, gli angoli inusuali da cui riprendere e riproporre ciò che è ormai entrato nell’immaginario collettivo. Ne viene fuori il ritratto di un Fellini come se fosse colto da una porta di servizio, da una prospettiva sfalsata, diversa da quella (a suo dire la migliore) che lui stesso imponeva ai cameramen che lo filmavano durante un’intervista.
La seconda parte, viceversa, nel centrare l’attenzione sui due progetti non realizzati di Fellini (Il viaggio a Tulum e il Mastorna) segna un brusco stravolgimento delle regole e avvia un percorso da detection consapevole, in primis, dell’enorme originalità del materiale presentato che passa anche per snodi dolenti della biografia del regista, non ultimo il litigio che segna la fine della sua amicizia con lo scrittore Andrea De Carlo.
Ne viene fuori la scoperta di un vero e proprio giardino segreto, colmo di momenti di vita che sembrano quasi strappati dalle immagini di un film del regista e che dimostrano che quanto detto da più parti dai conoscenti del regista riminese era assolutamente vero: che la sua vita era esattamente come un suo film.
Apprendiamo allora, con divertimento, del fatto che il progetto di Il viaggio a Tulum fu funestato da telefonate che Fellini riceveva da sedicenti entità tolteche. Chiamate così assurde da far nascere, in Cappuccio e nello spettatore, l’idea che il tutto fosse addirittura una montatura orchestrata da Fellini per divertirsi alle spalle degli amici. E veniamo anche a conoscenza, scoop nello scoop, delle persone reali che hanno fatto da modelli ai personaggi partoriti da Fellini e Milo Manara e che avrebbero dovuto interpretarli sullo schermo prima che creature dell’aldilà ci mettessero lo zampino.

Lo spirito irriverente che Cappuccio sa infondere al suo racconto non viene meno, neanche nella seconda parte di Fellini Fine Mai. Resta, tuttavia l’impressione che la frattura tra la prima e la seconda parte del documentario, pur se profondamente voluta e in qualche modo motivata dal regista, ne costituisca comunque il maggior difetto.
Tutto il segmento sui film non realizzati è, infatti, talmente ricco e inedito da far impallidire il resto. Così si ha l’impressione di uno squilibrio interno delle parti che un poco dispiace. Ed è un peccato perché le premesse del capolavoro c’erano tutte davvero.


CAST & CREDITS

(Fellini Fine Mai); Regia: Eugenio Cappuccio; montaggio: Graziano Falzone; musica: Vincenzo Lucarelli; suono: Ivan Sibio; interpreti: Andrea De Carlo, Francesca Fabbri Fellini, Milo Manara, Vincenzo Mollica, Sergio Rubini, Mario Sesti; produzione: Rai Cinema, Rai Teche, Aurora TV (Giannandrea Pecorelli); origine: Italia, 2019; durata: 80’


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