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Verità naturali, Illusioni culturali: La forza utopica delle immagini negli itinerari di Terrence Malick

Pubblicato il 19 gennaio 2006 da Fabrizio Croce


Verità naturali, Illusioni culturali: La forza utopica delle immagini negli itinerari di Terrence Malick

C’è un movimento continuo, insistente, debordante e ciclico che ritorna in ognuno dei quattro film diretti da Terrence Malick negli ultimi trent’anni e che sembra stabilire una relazione trascendentale, spirituale tra le epoche storiche, gli spazi fisici, i luoghi delle anime e i destini dei personaggi su cui, di volta in volta, questo anarchico, schivo Amleto del cinema americano ha posato il suo sguardo intriso di magia e realismo.Questo movimento è compiuto dall’esterno all’interno di una specifica, definita, riconoscibile realtà trasfigurata dalla percezione degli occhi degli uomini come rappresentata nella sua essenza materialistica,alla ricerca di un incontro o meglio di una frattura, un corto circuito tra bisogni, aspirazioni e desideri umani e la consapevolezza della presenza immanente della natura, indifferente nella sua bellezza, seppur mutabile e corrutibile nella forma.
Spesso la non coincidenza tra due linee parallele che appaiono destinante a non toccarsi mai, neanche nelle loro punte più estreme, genera la tragedia, la situazione senza via d’uscita,dove il movimento dei protagonisti pur procedendo per accumulo di avvenimenti, eventi drammatici e grotteschi, e il rafforzamento del rapporto sentimentale(che sia uomo\donna o uomo\uomo non ha particolare importanza, visto che si tratta sempre di un’affinita elettiva tra anime con i corpi come strumento di comunicazione di questa energia) in realtà li conduce verso l’ineluttabilità di un destino che già conosceva i suoi passi e al quale l’unica risposta possibile è una pacata, malinconica accettazione più che un’estenuante, disperata lotta. Si prendano i due protagonisti de La rabbia giovane, il primo, bruciante lungometraggio di Malick: Sissy Spacek e Martin Sheen si illudono di poter modellare la loro esistenza su quella dei ribelli tramandati e codificati dal mito in primis del cinema americano (James Dean in testa) e il loro comportamento da amanti folli, teppisti che sfreggiano il loro micromondo (la triste e gretta provincia), fino alla paradossalità dei guerriglieri arroccati in una foresta rivisitata come se fosse la giungla del Vetnam, li porta al disastro finale perché esagerato e urlato da un’ideale che va oltre la loro reale natura, quella di una ragazzina che fa la majorette tra le strade di una cittadina anonima e una ragazzo vagamente svogliato e insodisfatto del suo lavoro. Curiosamente il titolo italiano, La rabbia giovane, è probabilmente il titolo che avrebbero dato i due protagonisti alla loro storia, mentre il titolo originale, Badlands, “Terre cattive”, riporta tutto ad una definizione più arcigna, viscerale, “naturale”, collegando i personaggi ad una sorta di verità fisiologica, creature generate da una polvere imbastardita, logorata.
Dalle Terre cattive a “I giorni del cielo”, il primo segno dello spostamento verso una congiunzione più profonda,intima ed epica insieme, dell’umano con il naturale e quindi con lo spirituale, una nozione che la coppia Spacek-Sheen perdeva di vista nel suo basso orizzonte di omologazione e simulazione. Non è sicuramente un caso che l’ambientazione sia spostata indietro all’inizio del secolo, con una connotazione temporale più arcaica, “pura”, innocente, una disperazione che affonda le sue origini in un terra amara più che cattiva e giustifica le azioni dei suoi anti-eroi nel desiderio di fuga dalla povertà, dalla miseria, dall’abbruttimento che avvilisce la morale e la coscienza.
Ciò che differenzia la coppia di finti fratelli composta da Richard Gere e Brooke Adams dalla coppia di finti amanti maledetti de “La rabbia giovane”, sta nella carica di doloroso disincanto, di consapevole senzo di sconfitta con cui ordiscono il loro diabolico piano ai danni del malinconico proprietario di una fattoria Sam Shepard, malato terminale e facilmente vulnerabile, il tutto immerso, avvolto dalle fluide e morbide immagini di un’autunnale America rurale. Sarà la consapevolezza a far franare il mondo fasullo, ristretto e infelice dell’opportunismo e dello sfruttamento e a scatenare la forza primaria, autentica e travolgente delle passioni, come del vento che continua a soffiare sui covoni di grano, eleggendo la natura a ruolo privilegiato per stabilire un collegamento sublime che avvicina le anime verso l’orizzonte indefinito del cielo, con la terra stavolta fertile, generosa, capace di accoglliere all’interno e non solo in superficie.
La problematicità di questo discorso esploderà a tutto campo nel momento in cui il cinema di Malick sovrapporrà all’obiettivo rivolto sulle storie dei piccoli, insignificanti individui travolti dal loro destino, l’obiettivo più totale della Storia sempre vista nel caledoiscopio delle vicende umane personali, ma con una speranza, un’utopia di bellezza e di verità suggerita dal senso di solidarietà che può stabilirsi tra due o più essere umani e tradita dalle sovrastrutture incontrollate e aggressive della società, che invadono senza misura e distruggono senza cura, neanche seguendo l’istinto, ma una sorta di automatico indottrinamento alla prevaricazione.
Gli aspetti presenti in bocciolo nelle due opere prime trovano la loro matura, intensa, amplificata espressione nelle due opere crepuscolari dell’ultimo periodo, “La sottile linea rossa” e “The New World”. Il modello automatico di indottrinamento alla prevaricazione e alla violenza, identificato rispettivamente con la seconda guerra mondiale e la colonizzazione delle terre degli indiani da parte degli yankees, è una versione collettiva e ufficializzata della piccola guerra portata avanti dagli sbandati de “La rabbia giovane”, ma questa volta non cè bisogno di trasformare la natura circostante del proprio territorio nella giungla da combattimento, perché la natura selvaggia è già presente con il suo tempo dilatato, la sua luce e i suoi abissi oscuri, la potenza seduttiva delle sue meraviglie, la riflessione e la meditazione. E il movimento definitvo è quello che compiono - in un verso e nell’altro- il soldato Witt nella giungla del Guadalcanal e la Pocahontas del “Nuovo Mondo”, un viaggio compiuto attraverso la triplice chiave della liberazione (o dell’incarcerazione), della rinascita e della morte.Witt porta in sé l’inquietudine, il male devastante, lo “spleen” che già pervadeva il proprietario terriero de I giorni del cielo e trovando la chiave per entrare in comunicazione con l’ambiente e il suo tempo potrà esprimersi nelle giusta dimensione - quella di un dialogo interiore - e trovare anche il tempo giusto per la sua morte, spogliato dal ruolo di soldato, ,ma panteisticamente accettato e riconosciuto dalla natura. Pocahontas, al contrario, si muoverà dalla totale comunione con il suo ambiente, dall’armonia e dalla coscienza di se stessa alla perdità dell’identità naturale restando, suo malgrado, imprigionata nella gabbia dell’amore romantico per John Smith e dell’illusione della civilizzazione e costretta a re-inventarsi sull’immagine di una ragazza occidentale, lontanta dal punto di partenza e troppo distante dal punto di arrivo.
Se la morte di Witt è il malinconico pegno per la speranza di un dialogo con la natura, la morte di Pocahontas è la rottura senza appello di quel dialogo, il tradimento finale, una sorta di nuovo peccato originale pagano, la separazione che porterà alla creazione di paradisi sempre più fasulli, di inferni sempre più vicini.


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