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Vice

Pubblicato il 6 gennaio 2019 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Vice

Gloriosi Sati Uniti d’America, manifesto limpido e contraddittorio della attuale democrazia occidentale, capaci di combinare disastri di tragica ed epocale portata storica, denunciati poi senza peli sulla lingua e con efficacia planetaria da opere dell’ingegno di nobili e solide qualità e fattura firmate da registi, scrittori ed artisti lasciati liberi di esprimere sdegno e condanna in difesa di una libertà considerata bene sacro e non negoziabile. È esattamente questa la riflessione, amara, amarissima, stimolata dalla visione di Vice, la nuova potente, potentissima fatica di Adam McKay, seriamente in corsa per un congruo numero di statuette alla prossima Notte degli Oscar. È questo il bello, ma anche l’assurdo e il grottesco, di una libertà di espressione che tuttavia non riesce a diventare sufficientemente efficace e a trasformarsi in credo ideologico condiviso per condannare i responsabili di azioni contro il buon senso e il benessere della comunità degli uomini, ed evitare di ripetere, in futuro, identiche a inammissibili atrocità ai danni, nell’attuale mondo globalizzato, dell’intera popolazione terrestre. Vice (da pronunciarsi ‘vàis’, che in inglese gioca sul doppio significato di ‘vice’, cioè colui che fa le veci di qualcun altro, e ‘vizio’) è, a differenza di altri film politicamente impegnati della storia del cinema che hanno rivelato al mondo scandali e vergogne del Potere in ogni epoca e latitudine, può contare sulla relativa vicinanza cronologica di fatti ormai storicizzati ma i cui effetti nefasti sono tuttora sensibili nell’odierna ondata di odio che mantiene separato il Pianeta in due fronti contrapposti praticamente in guerra permanente tra loro. Ma iniziamo dal C’era una volta.

Dick Cheney era, da ragazzo, un modesto operaio elettricista del Wyoming, pessimo studente a Yale, che nel tempo libero si sfondava di alcool, finendo spesso in gattabuia per guida in stato di ebbrezza. Fu la sua fidanzata Lynne a rimetterlo in riga, e a imporgli quella più rigorosa condotta di vita che lo portò progressivamente ad entrare in politica nelle fila della destra repubblicana e a servire docilmente, sempre in posizione appartata e discreta, i diversi presidenti americani che da Nixon a George W. Bush, passando per Gerald Ford, Reagan e Bush senior, si sono succeduti alla Casa Bianca. Un uomo schivo, taciturno, sfuggente, tutt’altro che brillante, ma evidentemente in grado di far avvertire nelle alte sfere la propria fedeltà e il proprio inossidabile sostegno consensuale. Adam McKay racconta questa ‘ascesa’ politica del futuro Vice Presidente degli USA sotto l’amministrazione di Bush junior con la sua consueta, documentaristica libertà di mano, stavolta meno idiosincratica (fortunatamente) rispetto al precedente La grande scommessa (The Big Shot), e, visto il materiale umano a disposizione, più tesa ad esaltare gli aspetti shakespeariani della vicenda di un Macbeth contemporaneo istigato dall’altrettanto ambiziosa Lady che gli vive accanto, lasciando che la scrittura cinematografica del film si arresti, a volte, per contemplare con squarci impressionistici e interludi ‘operistici’ il dipanarsi lento ma implacabile di tanta limacciosa materia narrativa. Il tono è scanzonato, il ritmo è veloce, ed è impossibile non accogliere fin da subito l’invito a salire sulla spietata macchina da guerra in cui può trasformarsi un film scaturito da una convinzione tanto documentata e puntuale per svergognare un nemico così caparbio, odioso e recidivo. Cheney era nella ‘stanza dei bottoni’ il giorno in cui, contraddicendo la tesi di Fukuyama che negli anni ’90 aveva prospettato la ‘Fine della Storia’, la storia ricominciò da capo: all’apice di una carriera fatta di sostanziosi successi e soddisfazioni Cheney e la sua famiglia si ritirano a vivere in un cottage del Wyoming, dove lui potrà dedicarsi alla tanto amata pesca ‘con la mosca’, la musica (splendida, di Nicholas Britell) sale, e iniziano a scorrere i titoli di coda; il film, dopo appena un’ora sembra concluso lì, ma ad un tratto i titoli si arrestano, rispunta la voce narrante che annuncia ‘Ma poi è successo questo’, e con un cut netto e brutale lo schermo viene invaso dalle immagini degli aerei che sventrano le Torri Gemelle l’11 settembre del 2001... E ricomincia anche il film, che illustra la fase più cruciale della vita di Dick Cheney, quando in quella stanza dei bottoni, in assenza del Presidente Bush impegnato altrove, deve prendere in fretta decisioni all’origine di una catena di eventi che da lì e per tutto il decennio successivo scateneranno disastri di dimensioni planetarie intensificando la contrapposizione tra l’Occidente e l’integralismo islamico, e ridefinendo i confini di un odio fondato da un lato su una sanguinaria ideologia religiosa integralista, dall’altro da una non meno esecrabile pretestuosità fittizia e guerrafondaia che provocherà un fiume di morte e di orrori oggi ancora lontano dall’estinguersi. Film così politicamente impattanti non se ne vedevano da tempo: privo della faziosità e del cinismo che farciscono i documentari di Michael Moore, Vice è a tutti gli effetti un grande spettacolo cinematografico, ordito e realizzato per il grande schermo con magistrale perizia. Stupefacente è addirittura l’apporto attoriale: Christian Bale (nato, come Dick Cheney il 30 gennaio, ovviamente 33 anni dopo) consegna alla storia del cinema una di quelle prestazioni che faranno epoca, assimilabile al Jack La Motta di Robert De Niro o al Edgar J. Hoover di Leonardo diCaprio: ingrassato 20 chili, stempiato e incarcato in un collo oscenamente taurino e accorciato, insomma irriconoscibile, conferisce al machiavellico ‘uomo nell’ombra’, come recita il sottotitolo della versione italiana, la presenza ingombrante di un voluminoso carcinoma dai chiaroscurali contorni venefici; Amy Adams, ormai tra le più grandi d’America, invecchia insieme alla sua Lady Macbeth con pervicacia ormonale, e in coppia col marito fornisce all’immaginario cinematografico degli ultimi anni ’10 del nostro secolo un dittico di demoni fautori del Male più ingiustificato e impunito. Una citazione a parte meritano il Bush junior di Sam Rockwell, che sembra divertirsi a contenere il goffo e il ridicolo di una figura già caricaturale di suo nella vita reale, e il Segretario della Difesa Donald Rumsfeld di Steve Carell, ormai campione assoluto di trasformismo e, di tutto il cast, forse il più ’complice’ del giocoso e drammatico meccanismo messo in moto da McKay.

Più coraggioso e partecipato del pur eccezionale La grande scommessa, Vice scuote la coscienza sporca di un’America che probabilmente riuscirà a lavarsela inondandolo di premi e riconoscimenti, dai Golden Globes alle statuette dell’Academy Awards. Ma stavolta il messaggio contiene un allarme ben più accorato, e si spera che il film di McKay riesca a segnare l’inizio di un recupero dell’anima buona e onesta di una Nazione cui l’eccessiva abitudine alla democrazia sta procurando una seria e grossa crisi di identità sociale, politica e istituzionale.


CAST & CREDITS

(Vice); Regia: Adam McKay; sceneggiatura: Adam McKay; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Hank Corwin; musica: Nicholas Britell; interpreti: Christian Bale, Amy Adams, Steve Carell, Sam Rockwell; produzione: Adam McKay, Brad Pitt, Will Ferrell; distribuzione: Eagle Pictures, Leone Film Group; origine: USA, 2018; durata: 132’


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