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Victor Erice Il sole dell’alveare Pardo d’oro 2014

Pubblicato il 18 agosto 2014 da Nicola Calocero


Victor Erice Il sole dell'alveare Pardo d'oro 2014

Victor Erice ha ricevuto al Festival di Locarno appena terminato il Pardo d’oro alla Carriera. Non crediamo che nessun autore prima di lui abbia ottenuto tale riconoscimento soltanto con tre lungometraggi all’attivo. Eppure - proprio grazie ad una personale ed inedita dimensione poetica nelle cura della messa in scena - una filmografia così essenziale lo colloca a pieno titolo nell’Olimpo della cinematografia mondiale come un maestro indiscusso, rendendolo un autore generoso dal punto di vista formale tanto quanto parsimonioso per quanto riguarda la sua produzione. Per Victor Erice il Cinema è un’arte prettamente visiva e la visione è il gesto puro, primitivo e primigenio su cui si fonda tutta la conoscenza e l’analisi del mondo che ci circonda. Non a caso siamo tutti figli di quella cultura greca dove la parola storia deriva dall’aoristo del verbo greco vedere. Questa teoria empirica ed estetica così profonda, fortemente ambiziosa, è il presupposto su cui si fonda tutto il suo cinema, sin dalla sua opera prima: Lo spirito dell’alveare, girato nel 1973 da un Erice poco più che trentenne. L’alveare è il reticolato che regola - come un microcosmo - le relazioni di una famiglia che vive nella provincia spagnola nei primi anni della dittatura franchista. La famiglia è composta da un padre apicoltore, da una madre con un amore passato irrisolto, e da due figlie piccole. La più piccola delle due bambine rimane plagiata e turbata dalla visione del film Frankenstein di James Whale visto grazie ad un cinematografo itinerante che attraversa la provincia spagnola. La bambina dopo questa sua iniziazione cinematografica entra così in una nuova fase della sua vita, cercando come un’ossessione di ricreare le condizioni che la possano riavvicinare allo spirito del mostro che aveva visto prendere corpo sullo schermo. Il film si segnala per inedite e moderne scelte di regia, soluzioni stilistiche che accompagneranno tutta la carriera del regista spagnolo. Dopo un esordio così particolare ci vollero ben dieci anni per vedere una sua nuova opera. Nel successivo El Sur confluiscono molte delle tematiche già presenti nel precedente film: la provincia spagnola, le aspettative di una adolescente in crescita, il Cinema come dialettica tra strapaese e stracittà, anche qui rappresentato come un altrove universale, proposto dalla modernità e capace di scardinare regole e equilibri che la Natura aveva per secoli saputo imporre ai luoghi e alla sua gente. La protagonista del film è un ragazza inquieta colta sul limite della pubertà: potrebbe essere la sorella maggiore o la stessa bambina del precedente film cresciuta. Siamo ancora una volta in un luogo completamente isolato dal tempo e della storia: qui siamo nel nord della Spagna, alle pendici dei Pirenei ma fuori dalla rotta del cammino di Santiago. Estrella crede che il padre, un rabdomante, nasconda un amore con un’attrice del cinema, una storia che riemerge ciclicamente dal suo passato. E ancora una volta nel corso della vicenda sarà la vita reale a confondersi con le illusioni dello Schermo. Il titolo del film, EL SUR, allude al mezzogiorno della Spagna da cui è dovuto fuggire per motivi politici il padre, qui interpretato da Omero Antonutti. La storia, che come si può notare è una variazione sul tema del film precedente, si segnala per una ancora più radicale messa in scena e per una più matura direzione degli attori. Questo film si sarebbe dovuto completare con un secondo capitolo mai realizzato, EL NORTE, che avrebbe concluso la vicenda in una sorta di chiasmo. L’ultimo dei suoi lungometraggi risale ormai a più di venti anni fa. Si tratta de Il sole della mela cotogna che conquistò all’inizio degli anni 90 il Gran Premio Speciale della Giuria al XLV Festival di Cannes. Il film rappresenta una riflessione estetica intorno alla vita e all’arte che astrae, sotto forma di metafora, tutta l’opera del regista. Il pittore spagnolo Antonio Lopez decide di rappresentare l’albero di melocotogno nel suo giardino, ma ogni volta che nel corso della stagioni si avvicinerà alla rappresentazione perfetta del suo soggetto, l’albero avrà già cambiato luce, forma e colori: perché questo è ciò che impone il ciclo della vita e delle stagioni, la legge a cui è sottoposta la Natura prima dell’Arte. La sfida di abbracciare la Verità si impone quindi come un limite insuperabile per l’Uomo, ma Erice ci ricorda sempre che proprio per questo abbiamo creato l’Arte, per lanciare la nostra sfida titanica contro la Natura. E in tutto il suo cinema Victor Erice sembra, attraverso il rigoroso primato della messa in scena, rimanere fedele solo a un dogma, che sembra prendere le mosse dal celebre verso di J. Keats di due secoli fa: Verità è Bellezza; Bellezza è Verità: questo ci è dato di sapere, ed è quanto basta.


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