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Viviane

Pubblicato il 2 dicembre 2014 da Francesca Polici
VOTO:


Viviane

Saremo anche nel 2015 ma, ancora oggi, in molte, troppe, aree geografiche vige una realtà sociale che relega il sesso femminile ad uno scalino inferiore rispetto a quello maschile. In questi assetti sociali pare che il tempo si sia fermato, che il femminismo non sia mai esistito, che la parità dei sessi sia solo uno scomodo ed astratto concetto da scacciare con tutte le proprie forze. Ed è in queste stesse realtà che film come Viviane, terza ed ultima parte della trilogia dei fratelli Elkabetz, acquista un’enorme valenza politica e civile, presentandosi come un film assolutamente necessario per riproporre al centro del dibattito la difficile condizione a cui molte donne sono costrette a fare ancora fronte. Dopo To Take a Wife e Seven Days, infatti, i giovani autori decidono di proseguire sulla scia dell’impegno civile raccontandoci la storia di Viviane, una giovane donna israeliana che vuole divorziare da suo marito.

Interpretata da una bravissima Ronit Elkabitz, – peraltro co-regista e co-sceneggiatrice del film – la donna è costretta a passare per una lunga diatriba giudiziaria, presso il tribunale religioso di un’ignota cittadina israeliana, prima di ottenere la libertà dal marito Elisha. Assistiamo, così, a cinque lunghi e faticosi anni in cui si susseguono testimonianze tragicomiche, che sfiorano il grottesco, di amici e parenti. Ma Viviane non cede alla stanchezza e, seppur sfinita da questa interminabile prigionia, mantiene duro fino all’ultimo, impassibile ai continui tentativi dell’uomo di rinviare il processo rabbinico.

Nell’incedere narrativo riecheggia a gran voce il riuscitissimo Una separazione, da cui l’opera sembra trarre spunto. Così come l’iraniano Farhadi, anche i fratelli Elkabetz adottano un impianto estetico asettico che si alterna fra lunghe soggettive e continui primi piani. L’ambientazione claustrofobica – il film, infatti, si svolge quasi interamente all’interno di un’aula del tribunale – trasmette tutta l’angoscia e l’emarginazione della protagonista, vincolata all’assurdità di leggi dal sapore ottocentesco. Colpisce visibilmente l’alternanza e l’accostamento di tonalità contrastanti, dal dramma alla caricatura – tratto distintivo di quei macchiettistici personaggi, veri e propri “mostri”, che popolano il tribunale. Ma, senza dubbio, è il personaggio della protagonista a sorreggere l’intera pellicola, edificato sulla base di una sceneggiatura di rara finezza e solidità, capace di regalarci uno splendido ritratto femminile. Anche se, forse, è il surreale ritratto sociale che viene fuori da questa delicata narrazione a colpire maggiormente. Tra uno sguardo in macchina e l’altro, sono lunghi i momenti di silenzio che compongono l’opera, lasciando spazio a divertenti ed irriverenti intermezzi e, per gli stessi, passa la derisione di una società patriarcale ancorata a beceri e distruttivi dogmi. Sofisticato.


CAST & CREDITS

(Gett, The Trial of Vivian Amsalem); Regia: Ronit e Shlomi Elkabetz; sceneggiatura: Ronit e Shlomi Elkabetz; fotografia: Jeanne Lapoirie; montaggio: Joel Alexis; musica: Bassel Hallak; interpreti: Ronit Elkabetz, Simon Abkarian, Sasson Gabai, Menashe Noy, Eli Gornstein; distribuzione: Parthénos; origine: Israele/Francia, 2014; durata: 115’.


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