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A PESARO PRIMI IN(S)CONTRI SUL NUOVO CINEMA ITALIANO

Pubblicato il 28 giugno 2006 da Edoardo Zaccagnini


A PESARO PRIMI IN(S)CONTRI SUL NUOVO CINEMA ITALIANO

Se un paese scopre di essere l’insieme delle sue peggiori malelingue, allora in ogni campo, in ogni landa, in ogni settore della vita pubblica e privata c’è da tremare. Da riflettere e da prendere coraggio. Se non una pistola e puntarsela contro. La pubblicazione di uno spirito, di un atteggiamento storico, di un sistema culturale mafioso e frammentato in gruppi, lascia basiti, esterrefatti, stupiti e increduli per una verità che era sconosciuta in quanto tale anche se risaputa nella strana veste di vecchia e corrente credenza popolare. C’era un paese fatto come si diceva in giro e ora c’è l’ufficialità che dovunque ci siano interessi e soldi in ballo, quel paese intervie a esercitare violenti giochi e abusi di potere. Accade, perciò, che nel momento in cui la quarantaduesima edizione della Mostra del nuovo cinema di Pesaro organizzi il primo di una serie di incontri sul cinema italiano, i primi che parlano iniziano a togliersi dalla scarpa massi troppo grossi per esser definiti sassolini. Che siano attori, registi, critici, che siano tutti pesci piccoli, in una accezione capitalistica dell’aggettivo, la fatica a trattenere la sparata grossa (e ora verosimilissima) dura qualche smorfia e un paio di balbettamenti. Poi parte un’accusa incitata e fomentata da quanto i media raccontano sul dietro le quinte nazionale. Il primo incontro si intitolava “produzione e veicolazione” ovvero uno dei problemi principali del giovane cinema italiano. E quello che sbarca a Pesaro ha quasi sempre le vele rattoppate di chi ha navigato a vista, con un equipaggio di fortuna. La barca arriva in porto esausta, segnata, pronta a narrare drammaticamente l’esperienza del viaggio cinematografico. Il Dio produttore, importante bersaglio del dibattito, eternamente assente nello stesso, ha lanciato fulmini e giocato coi venti. Ha mandato pirati a sottrarre denaro ed ha fornito bugie nelle indicazioni della rotta. Eppure eccoli i registi navigatori, con la loro ciurma attorica e critica fidata. Scendono stracchi e battaglieri, cercano una mini dv che li filmi, un microfono ed un critico organizzatore che raccolga il loro disperato impeto di testimonianza. Prima però, mostrano il fatto (più o meno culturale) fermato in pellicola e allora, rafforzando la presa di distanza dal luogo comune di un cinema italiano morto, inutile o semplicemente brutto, chi va ad ascoltare quel dibattito non giudica quei registi italiani soltanto dei borghesi capricciosi e viziati figli di papà. Si gode il Ballo a tre passi di Mereu e pensa che sia un film antropocinematografico di alto valore estetico e contenutistico. Riaccende la propria memoria storica attraverso il cedimento emotivo che gli procura la cifra narrativa del primo Gaglianone, (I nostri anni). Sgombera il campo dalle immondizie ombelicali attraverso il sociale, ancora linguisticamente valido, di Marra, Patierno e Munzi. Non vede Sorrentino perché già conosce la sua capacità di dipingere personaggi ed atmosfere. Sa rendersi conto di come titoli come Tartarughe sul dorso e La spettatrice siano pellicole in ambiziosa confusione, care alla rarefazione con tutti i rischi che essa comporta. E comunque le ritiene figlie di autori in movimento, forse circolare ma sempre movimento. Capisce, attraverso L’Estate di Mio Fratello di Francesco Reggiani, che il concetto di realismo può essere trasversale e celato dietro una forma antirealistica di cinema. Di gran bel cinema, per giunta. Non capisce perché un film come Sole negli occhi, dello sceneggiatore Andrea Porporati sia un film sconosciuto a cinefili espertissimi pur entrando nei migliori dieci film italiani degli ultimi sei anni. E non è un caso che Porporati sia uno sceneggiatore. L’osservatore di film continua a non sentirsi vicino alla stramberia di Aprimi il cuore di Giada Colagrande e non vede l’ora di vedere Apnea di Roberto Dordit, perché per colpa del secondo nemico numero uno del dibattito, (la distribuzione), pur solito nelle corse e nei viaggi alla ricerca di un film in pellicola, quella volta all’Arena Sacher di Bimbi belli, il festival estivo organizzato da Moretti, proprio non ce l’ha fatta. Anche perché da quanto ne sa lui il film non è mai uscito.

Insomma, lasciando stare una serie ancora lunga di buoni e scarsi film presenti a Pesaro, egli ribadisce a se stesso che il cinema italiano è dislocato e complesso, spesso povero e in riformazione, ma assolutamente estraneo ad una totale stagnazione televisiva ed emotiva. Con questa convinzione si avvicina al dibattito e riascolta i soliti vecchi due problemi: la problematicità di produzione e di distribuzione, racchiudibili, per altro, in uno solo più interrato e ramificato: la dolente relazione che il cinema ha involontariamente con il mezzo della Tv, massima espressione dello stato culturale del paese e oggetto fisico e mentale strettamente collegato ai metri quadrati del privato tanto caro ai potenti. I produttori ed i distributori, estremi padroni dei costruttori tecnici ed artistici di film, vogliono roba che acchiappi la gente e per farlo propongono, anzi, impongono una serie di ingredienti e di parametri. Ora uno come Brizzi, che a Pesaro verrà, è uno strumento di codesto oligopolio e sa far bene, benissimo, quello che gli chiedono. Però ne esistono altri di uomini da macchina da presa, che la pensano al contrario e che il ritmo da dare al film, la distanza tra una parola e un’altra, la durata di un’inquadratura la vogliono scegliere loro, perché sono convinti che esista un rapporto tra scelte estetiche e di contenuto che serve a loro perché il cinema sia quello che loro pensano del cinema, e che vogliono dal cinema. Si forma così un nutrito gruppo di eterna gioventù (forse perché si è giovani finchè si è precari) che scorre sbattendo su questa linea immaginaria e finita. Il produttore, spesso funzionario di regime menefreghista di un cinema di valore artistico e staccato dalla creatività del suo ruolo, colpisce il ragazzo con la macchina da presa. Questo parte sballottato a percorrere la linea e nel frattempo elabora, si inventa ed organizza il suo girato e il suo montato. A scorrimento concluso lo attende il distributore, che in Italia è composto dalla diade Medusa-01, ovvero Berlusconi-Stato. Il cazzotto rimbalzante e pro-depressivo sta nella chiusura degli spazi, nei giochi meschini di finte distribuzioni, nella continua giustificazione sociale per cui è la gente che decide e alla gente questo cinema non interessa. L’autore risponde indignato che alla gente questo cinema non interessa perché la gente non lo sa che questo cinema esiste. Il distributore fa finta di ascoltarlo ma non rinuncerebbe mai alle cinquecento copie di Verdone, Da Vinci, King-Kong o i Vanzina. Forse perché è il primo a non fidarsi della gente o perché non ha tempo e denaro da perdere in un periodo addestrativo del pubblico. Per questo poi si ripetono i dibattiti e riascolti le mille idee per una distribuzione alternativa: c’è chi attende messianicamente l’avvento delle nuove tecnologie (oggi chi scrive ha scoperto l’imminente atterraggio di una banda larga che pare possa salvare gli autori). Però poi si alzano gli integralisti della sala e della pellicola e si scontrano con quelli che portano i dati confortanti della distribuzione in Dvd. Alla fine si fa spazio la pacata saggezza di Bruno Torri per concludere che si, il fatturato dei dvd supera quello della sala, ma è anche vero che i Dvd che vanno meglio in casa sono quelli relativi ai film che hanno avuto un grande successo in sala. Questo per ribadire che non c’è sala, dvd o questa cavolo di banda larga che tengano di fronte al fatto che il cinema è legato all’imposizione economica di chi lo tiene in mano per dire una cosa sola: storditevi e non rompeteci i coglioni, che siamo impegnati a fare soldi. Comandano gruppi ristretti di potenti che ne fanno uso privato, lasciando ad un paese la finta possibilità di scegliere tra due o tre pellicole simili tra loro. Perchè non tutti abitano a Roma o Milano. Nel contado di questa fortezza si organizzano cantori impegnati e bravi cineasti. All’ombra fredda di questo muro c’è un insieme di film altalenanti. Qualcuno è talmente interessante, oppure sottilmente furbo, che sa scalare questa muraglia ed arrivare sulla tavola dei grassi signori che si fanno spiegare dai loro arguti consiglieri che questa roba può andar bene per le digestioni del paese. Allora cento, duecento copie, al limite cinquanta ma come qualcosa puzza in termini economici, sparite e non vi fate più vedere. L’unico atteggiamento proficuo verso nuove situazioni, lo dice ancora Torri, deve essere di tipo politico: far passare le leggi anti-trust che sono nel programma dell’Unione, lavorare sulla gente, sul paese.
Impresa non facile.


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