X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Addii - Arthur Penn, piccolo, grande uomo

Pubblicato il 30 settembre 2010 da Alessandro Izzi


Addii - Arthur Penn, piccolo, grande uomo

Ci vogliono spalle larghe per dirigere gli attori.
Eppure Arthur Penn non aveva un fisico propriamente ben piantato. Era piuttosto un piccolo uomo di quelli che ti colpiscono per gli occhietti vispi e mobili come quelli di un cerbiatto che fiuta l’aria fredda del mattino.
Quando guardi una sua foto recente, più che delle poche rughe che gli incorniciavano il volto, ti sorprende la franchezza di un sorriso che non sembra fatto apposta per l’obiettivo.
Era il sorriso di un cineasta che amava Truffaut e sembrava essere stato capace di portarsi appresso dai film del maestro francese l’invidiabile leggerezza di uno che prende la vita così come viene, con simpatica canaglieria. Era il sorriso di chi ha vissuto a lungo e non si è fatto troppo spaventare dalla vita. Non fatichi ad immaginartelo, alla fine della seconda guerra mondiale, mentre si mette lo zaino in spalla e si avvia per le strade di un’Italia ancora piena di macerie con lo stupore di un turista che visita un museo a cielo aperto. Voleva imparare la lingua, così diceva, per essere in grado di leggere Dante nella sua lingua e non nelle bieche traduzioni che ne tradivano ad ogni passo l’essenza più intima.
Col tempo l’italiano sarebbe scivolato via dalle sue labbra per mancanza di esercizio, ma non dai suoi occhi. Occhi che hanno accarezzato mezza Europa e se ne sono portati a casa un pezzettino per farne materia di sogno.
Soprattutto amava il cinema europeo. Invidiava la leggerezza del girare tipica del neorealismo che era riuscito a lasciarsi alle spalle il pachiderma dello studio e degli attori dalla recitazione impostata. Osannava le magie del cinema della Nouvelle Vague che di quella leggerezza era figlio, a suo modo più giovane e sfrontato.
E questo fermento giovanile, gagliardo e un po’ ribelle se lo portò a casa con l’intenzione di rifondare un cinema che non doveva più avere fame di sogni (com’era all’epoca del New deal roosveltiano coi suoi musical e le sue commedie), ma di mito e di poesia della Realtà.
Gangster story (forse il suo film più famoso insieme col più popolare, ma da lui stesso non tanto amato, Anna dei miracoli) sta lì a dimostrare ancora questa fame di icone, questo bisogno di un realismo che sappia stare attaccato al mondo vero. Nella consapevolezza che certo il cinema è più grande della vita, ma solo perché agisce su di essa come la lente di un microscopio che ne magnifica le forme obbligandoci a cercarci dentro un senso.
Film francese nello spirito, Gangster story, leggenda narra, avrebbe dovuto recare le firme, alla sceneggiatura, di Truffaut e di Godard. Gli stessi di Fino all’ultimo respiro. Gli stessi di un cinema che ha fame di se stesso, che si pensa mentre si mette in scena e che parla con franchezza al proprio pubblico senza borghesi infingimenti.
Questo dialogo cercava anche Arthur Penn, un dialogo impossibile all’interno di uno Studio system che, dove poteva, negava il final cut.
Che in questo ambiente, che mise in crisi dall’interno aprendo la strada ad un’intera generazione che sarebbe venuta poi e che aveva i nomi di un Lucas e di uno Spielberg, di un Coppola e di uno Scorsese, egli sia riuscito a mettere in scena con ostinazione assoluta storie di individui contro un sistema, ci appare ancora oggi assolutamente incredibile.
Anche perché in quella foto col sorriso aperto e franco di chi non rinnega mai le sue idee (giammai nascose il fatto di essere un democratico progressista) non ti sembra di scorgerci caparbietà e testardaggine.
Semmai ci vedi un pizzico di timore, che gli increspa appena qualche ruga e che ti racconta la paura di chi sapeva di non poter vivere senza fare film, ma anche la paura di chi sapeva altrettanto bene di non poter vivere abiurando le idee sulle quali era stata costruita, salda, un’intera esistenza. Due timori, in quel di Hollywood, in perenne rotta di collisione.
Col suo cinema raccontò un disperato bisogno di libertà. Mise in scena la menzogna della politica. Ridicolizzò, ove possibile, il Potere. Fu sociologo senza essere strettamente politico. E fu innovatore senza manifesti di poetica.
Rischia di passare alla storia come direttore d’attori (ne prese per mano di formidabili), ma a noi piace ricordarlo per il suo stile giovane eppure controllato, trasgressivo eppure “innocente”, moderno eppure a suo modo classico. Il cinema, insomma, di un piccolo, grande uomo.


Enregistrer au format PDF