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Addii - Blake Edwards, un magnifico irriverente

Pubblicato il 18 dicembre 2010 da Sofia Bonicalzi


Addii - Blake Edwards, un magnifico irriverente

«Asino ed arrogante in modo insopportabile, ma non gli passerebbe mai per la testa di gettare la spugna. Anch’io ho avuto momenti difficili, ma non mi sono mai arreso. Sì, se non altro in questo senso, Clouseau sono io».
Così chiosava, in un’intervista di qualche anno fa, Blake Edwards, spentosi a Santa Monica il 15 dicembre 2010, uno degli spiriti più lucidamente sovversivi e anticonformisti che la fabbrica dei sogni abbia mai prodotto.
Dopo l’esordio come attore, con registi del calibro di William Wyler e John Ford, Edwards, ragazzo dell’Oklahoma dallo sguardo penetrante e dal sorriso un po’ mascalzone, passa alla regia con Quando una ragazza è bella (1955), commediola infarcita di canzoni che racconta i sogni di una maestrina di provincia. L’esordio è modesto, ma segna l’immediato approdo al genere che lo consacrerà come uno dei grandi maestri (un titolo che probabilmente non avrebbe gradito) del cinema americano, accanto a Ernst Lubitsch e Billy Willder (che si trasferirono dalla vecchia Europa alla California insieme ad un plotone di artisti e intellettuali alla ricerca del successo o in fuga dal nazismo). Geniale sperimentatore dal tocco inconfondibile, al tempo stesso malinconico e pungente, sarcastico e dissacrante, Blake Edwards ha confezionato commedie quasi sempre intelligenti e acutissime, muovendosi sapientemente fuori e dentro un sistema di cui è stato uno dei più corrosivi interpreti e osservatori.
Dopo un apprendistato segnato da qualche pellicola interessante (Operazione sottoveste e In licenza a Parigi, amatissimo da Godard), il successo arriva con Colazione da Tiffany (1961), deliziosa commedia tratta dall’omonimo romanzo di Truman Capote. E chi potrebbe dimenticare Audrey Hepburn- Holly Golightly, che fasciata nel tubino nero di Givency, destinato ad assurgere a icona di fascino ed eleganza, osserva ammaliata le vetrine di Tiffany, o intona la celeberrima ‘Moon River’ (Henry Mancini, poi autore dell’altrettanto fortunato tema de La pantera rosa, vinse l’oscar) al chiaro di luna? L’anno seguente Edwards abbandona i toni della commedia sofisticata, per girare una delle sue opere più intense e amare, I giorni del vino e delle rose, con un Jack Lemmon alcolizzato e disperato, rivelando uno sguardo malinconico e desolato, che non scivola mai in facili patetismi e rinuncia coraggiosamente ad un finale forzatamente lieto.
Il leggendario La pantera rosa (1963), primo film di una serie assai longeva (Uno sparo nel buio, La pantera rosa colpisce ancora, La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau, per citarne solo alcuni), inaugura invece un nuovo filone e segna il passaggio di Blake Edwards alla commedia farsesca (da ricordare anche La grande corsa, con un inedito Jack Lemmon nelle vesti del cattivo), che mescola efficacemente l’anima brillante dei film precedenti alle sarabande dello slapstick, accostando con intuito due attori agli antipodi, David Niven, qui ladro gentiluomo dall’irresistibile charme, e Peter Sellers, per il quale inventa il personaggio dell’ispettore Clouseau, una sorta di Hercule Poirot privo del suo formidabile intuito, pasticcione e un po’ borioso, alle prese con il furto di un prezioso brillante e con una moglie decisamente poco affidabile. Sellers, con cui Edwards ebbe un rapporto sempre altalenante e controverso («La sua era la follia di un isterico…In ogni caso io ne ero affascinato», dichiarò una volta il regista), ritorna qualche anno dopo (è il 1968), in quello che è forse il film più amato dai cinefili, Hollywood party, un’irriverente ed esilarante disintegrazione del mondo di cartapesta del system hollywoodiano, ad opera di Hrundi V. Bakshi, goffo e imbranato attore indiano ammesso per caso alla festa di un noto produttore, dopo aver involontariamente provocato la distruzione del suo ultimo set. Edwards nasconde un po’ di cinismo e di sana cattiveria fra le indimenticabili gag (l’esplosione del fortino è un pezzo d’antologia, così come il finale in cui tutto è inghiottito dalle bolle di sapone), ma il film non ottiene il successo sperato, come del resto accade al successivo Operazione crèpes souzettes, con cui inaugura la collaborazione artistica con la seconda moglie, Julie Andrews. Il film ribalta i più triti luoghi comuni dei film di spionaggio e soprattutto trasforma la fatina buona dei musical zuccherosi in una Mata Hari senza scrupoli, ma i produttori non gradiranno e il film sarà a stravolto al montaggio. Regista eclettico, come solo nella vecchia Hollywood si osava essere, Edwards nel corso di una carriera lunga oltre quarant’anni, non rinunciò ad alcune felici scorrerie nei terreni più diversi, misurandosi anche con il trhriller psicologico (Operazione terrore) e il western crepuscolare (Uomini selvaggi).
Guadagnatosi una pessima fama per via del suo leggendario caratteraccio, dopo un periodo di volontario esilio in Gran Bretagna (Il seme del tamarindo fra i vari), Edwards torna a girare in America e in una manciata di anni realizza alcuni tra i suoi film migliori. Nel 1979 è la volta di 10, una commedia dai toni altalenanti, che sbeffeggia i miti dell’uomo medio alle prese con una crisi di mezza età (10 è il voto assegnato da Dudley Moore alla provocante Bo Derek), mentre nel 1981 Edwards firma S.O.B. , uno dei suoi film più controversi e meno capiti, satira perfetta ma amara dei meccanismi che regolano l’industria cinematografica americana, per di più con Julie Andrews nei panni di un’attrice di musical costretta a spogliarsi sullo schermo dal marito regista. L’ultimo grande film (ma senz’altro da recuperare anche Così è la vita) è Victor-Victoria (1982), riuscitissima commedia musicale in stile retrò (è il remake di un film tedesco degli anni ’30), in cui Julie Andrews interpreta una cantante di cabaret che arriva al successo travestendosi da uomo e convincendo tutti di essere ‘un uomo che finge di essere una donna’.
Quando nel 2004 l’Academy, dopo decenni di silenzio (solo una nomination per la sceneggiatura di Victor Victoria), gli offre l’Oscar alla carriera, Edwards si presenta in sala su una sedia a rotelle, con tanto di finta gamba ingessata, per poi ricevere il premio con un buffo e irriverente discorso di ringraziamento. A chi gli chiedeva perché girasse tanti film rispondeva semplicemente che adorava stare sul set e andava in estasi per le risate del suo pubblico, con buona pace dei critici.


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