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Addii - Carlo Rambaldi

Pubblicato il 11 agosto 2012 da Alessandro Izzi


Addii - Carlo Rambaldi

I pezzi di gomma senza una storia dentro sono e restano soltanto dei pezzi di gomma.
Eppure, se ne prendi uno e lo riempi di sogni, di ricordi, di memorie, ecco che ti prende vita senza che neanche te ne accorgi e per te ha un nome, un pensiero, un’emozione.
Questo era Carlo Rambaldi: un piccolo dio che più umilmente modellava la creta e ci soffiava dentro, in mancanza di meglio, un’impressione di anima. Ma a guardarlo meglio, sotto il trucco hollywoodiano, era, in fondo, poco più che un piccolo mago di provincia che ti si presentava davanti, dopo l’inchino di rito al pubblico distratto, con un semplice trucco da baraccone di quelli che un po’ te li aspetti nel gran circo del cinema. E se andava via, finito il numero, con l’umiltà dell’artigiano che neanche aspetta l’applauso, col passo veloce un po’ meccanico di tante sue creature, quasi un alibi per i suoi modi schivi epperò orgogliosi.
Sotto le sue mani pezzi di materia inanimata prendevano forme strane, ma solo dopo che lui ci aveva messo dentro un po’ di fiato, essi aprivano gli occhi, camminavano, parlavano e, soprattutto, sognavano. Erano arcani manichini, quasi come golem, dai passi goffi, incerti e lugubri. Malinconici come la creatura di Praga, ma, all’occorrenza della storia che li avrebbe ospitati, altrettanto terribili e letali.
Un po’ si portavano addosso il marchio dell’essere emarginato e triste, della bestia che nessuno poteva comprendere ed accettare, ma che pure non riusciva a smettere di amare la sua bella come faceva il Kong nella doppia versione (remake e suo sequel) degli anni ’80, quando lo scimmione gigantesco girava nel mondo di oggi, spaesato e stanco, capace solo, nel tristo secondo episodio, di cogliere in flagrante le coppiette pomicianti sul divano di casa dell’horror che perdeva la sua vocazione politica.
Oppure erano letali gigeriane fusione di carne e metallo. Loro che avevano sempre dovuto mimare la carne con la giusta dose di composti chimici che a respirarli ti avrebbero bruciato gli occhi più che le lacrime di commozione per le loro tristi morti, solo nell’alieno di Alien trovarono la forza di mostrare quel che veramente erano: robot di ferro e acido che a ferirli ci bruciavi la pellicola stessa che li conteneva, lasciandosi dietro solo il fascio bianco neutro della luce del proiettore di sala.
Oppure, ancora, erano cavie da laboratorio di quelle che piacevano a Fulci in cerca di decomposizioni a vista e di bisturi capaci di incidere la carne per farne immagine da fumetto, come i cani di Una lucertola con la pelle di donna in cui il trucco era così superbo che ancora adesso pare vero e sadico.
Suoi erano i vermi giganti di Dune in un mondo come quello del cinema americano in cui le dimensioni contano anche se ti chiami David Lynch, ma suoi erano anche gli effettacci di Profondo rosso che gli deve tanto quanto il motivetto memorabile dei Goblin.
Ora Carlo Rambaldi non c’è più. Nottetempo è scesa l’astronave della sua creatura più famosa e se l’è portato via. Lontano da un cinema che, colle rivoluzioni della Computer graphic non sapeva che farsene di lui se non renderlo materia di commossi omaggi a una maniera che se n’era andata ancor prima dei titoli di coda.
E a noi che siamo rimasti a terra, a salutare di lontano, non resta che quello che il cinema, in fondo, è sempre stato: un mezzo arcobaleno di commiato tra terra e cielo.


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