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Addii- Claude Chabrol

Pubblicato il 12 settembre 2010 da Alessandro Izzi


Addii- Claude Chabrol

Il necrologio vecchio stampo a Chabrol gli va stretto come un abito di poca qualità che ha fatto troppi lavaggi caldi in lavatrice. È scomodo, infeltrito, grinzoso sulla pelle ed anche un poco scolorito. In due parole: non è adatto all’occasione.
Lui ne riderebbe. Lo troverebbe più indicato per la striscia dei fumetti, per la rubrica d’umorismo che sta ben dopo le pagine culturali.
Del resto ve lo immaginate come gli cadrebbe addosso una frase fatta del tipo “ne danno il triste annuncio”? Come un vestito due taglie sopra o sotto quella che ti calza come un guanto. Sarebbe un affronto al buon gusto ed uno schiaffo alla sua memoria. La sua dipartita, per essere “santa” non dovrebbe essere accompagnata da lacrime e singhiozzi, ma da un sonoro sospiro di sollievo. Anzi da più di uno.
La prima a sospirare dovrebbe essere la borghesia, finalmente liberata dalla cadenza quasi annuale dei suoi strali polemici e dei suoi film pamphlet. Si dovrebbe svegliare mattiniera e, pronta a calpestare qualche diritto elementare, dovrebbe esibire un sorriso ammiccante di quelli che sottintendono: “Finalmente se ne è andato! Niente più imbarazzi, niente più manfrine... niente più film specchio a raccontarmi le mie rughe a zampa di gallina”.
Poi dovrebbe alzare un sonoro “Alleluia” anche la Chiesa. In gregoriano possibilmente, perché l’orchestra squillerebbe troppo piena tra le navate riempite di fedeli anziani e petulanti. Non che i film di Chabrol se la prendessero col clero più del necessario, beninteso, ma l’assenza di metafisica nei suoi film migliori pesa più di una condanna a morte. È troppo chiara l’evidenza che colpisce chi, secondo copioni intinti nell’acido più corrosivo, approfitta della credulità dei poverelli per riempirsi casa di icone dorate e gioielli d’uso liturgico.
Anche lo Stato (quello francese, naturalmente, ma col diritto per tutti gli altri di riconoscersi nel ritratto fedele del fratello di sangue) dovrebbe sentirsi le spalle più leggere all’idea che un regista, che il tempo ha voluto annoverare tra i grandi, la smetta finalmente di farlo oggetto di prese in giro che tutto sono, fuorché bonarie.
I familiari dovrebbero, forse, stringersi in un lutto che non stentiamo a credere sincero. Ma la Famiglia in senso ampio ed universale, dovrebbe ripensare a titoli come Partita di piacere e dirsi fortunata di poter intonare un Requiem a chi di Messe da morto ne ha scritte tante sul rapporto tra mariti e mogli o tra genitori e figli. Senza le istruzioni per l’uso che ancora ci appiccichiamo addosso noi italiani in cerca di facili assoluzioni.
Anche la Televisione, che gli dedicherà qualche sporadico commento a firma del consueto responsabile della rubrica cinema e gossip (almeno qui in Italia, magari da qualche altra parte del mondo l’arte delle immagini si abbina ancora alla Cultura), dovrebbe tirar su il fiato anche se Il volto segreto, nel quale molti italiani potrebbero vedere il riflesso di Mediaset, è lontano nel tempo quasi come Doctor M.
Dovrebbe sentirsi fortunato anche il mondo dei cineasti d’antan che ancora non hanno mandato giù la sua massima proverbiale secondo la quale per diventare regista basta un pomeriggio di lavoro vicino alla macchina da presa. I rudimenti del mestiere sono, a suo dire, così pochi e così elementari che dirli a prova d’idiota è un eufemismo di quelli che piacciono ai borghesi.
Un aforisma che gli si perdona solo perché, nel corso della sua carriera, ha flirtato con le fantasie di un Bunuel e la ha messe in scena con lo stesso spirito caustico e le stesse inquadrature tagliate con l’accetta. Perché che sia un maestro nessuno riesce a metterlo in discussione. E forse, in fondo, è meglio non farlo per non dargli la patente di artista maledetto (e quindi martire) come al Miller di Giorni felici a Clichy che colpiva il suo bersaglio raccontando a parole quel sesso cui il regista poteva solo alludere con immagini che ancora oggi solleticano la nostra immaginazione.
In fin dei conti Chabrol è stato tollerato. Gli si è data la patente di grande del cinema essenzialmente per cercare di imbalsamarlo nel titolo accademico, per renderlo, col tempo più inoffensivo, più distante dai dibattiti.
Chabrol lo sapeva e se ne fregava. Continuava a fare i suoi film senza neanche troppo porsi il problema di quale fosse il suo pubblico e che continuavano a flirtare col thriller in cerca non di colpevoli, ma di innocenti dalle mani sporche. Film che restavano magnificamente coerenti ad un’idea che non è mai venuta meno neanche nel grigiore degli anni ’90 quando la sua visione del grigio come vero colore del male (perché è un colore tanto ignavo quanto avaro) rischiava seriamente di farlo confuso col paesaggio circostante. Anche le ultime pellicole, accolte in un clima culturale che cercava di museificare le ultime provocazioni, restano gemme acuminate di una volontà di graffiare una bestia che col tempo, almeno così diceva in giro, si è fatta capace di sviluppare anticorpi al suo veleno.
Eppure cosa dicono oggi i titoli dei giornali? Che è morto uno dei padri della Nouvelle Vague. Quasi a dire che ogni motivo di importanza di questo autora stia tutti lì: tra Gli innocenti dalle mani sporche e I cugini, tra Le beau Serge e massimo Donne infedeli. Segno forse che il suo magistero si è appannato con il passare degli anni. O segno, preferiamo pensare, che i suoi ultimi graffi facciano ancora un poco male per esporli a nuovo sale.


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