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Addii - Dino De Laurentiis

Pubblicato il 14 novembre 2010 da Simone Isola


Addii - Dino De Laurentiis

La grande stagione del cinema italiano viene spesso evidenziata dalla presenza di autori come Fellini, Antonioni, Rossellini, Visconti, personalità di grande cultura che hanno vissuto nel vivo il dibattito sociale del loro tempo. Ma forse il segreto di tale vitalità è da ricercarsi nel florido sistema economico del nostro cinema, che all’epoca costituiva il primo svago degli italiani e interpretava con prontezza i loro bisogni intellettuali e l’ansia di evasione. In quel sistema virtuoso, fatto di cinema d’autore e di genere, di “alto” e “basso”, i grandi produttori hanno rivestito un ruolo di prim’ordine, dando concretezza industriale alla mole di spunti e idee creative.

Con Dino De Laurentiis se ne va l’ultimo testimone di quella straordinaria e irripetibile stagione produttiva, l’ultimo esponente di quella schiera di grandi uomini di cinema - come i vari Ponti, Cristaldi, Lombardo - che hanno saputo mediare così brillantemente tra i gusti del pubblico e la libera espressione artistica degli autori. Se ne va a pochi giorni di distanza da un altro grande produttore, Alfredo Bini, così diverso da De Laurentiis per la costante ricerca di un cinema provocatorio, moderno sia nel linguaggio che nei contenuti, insieme stimolante e problematico per lo spettatore. Il grande Dino invece era sempre proteso verso il pubblico, il suo unico vero punto di riferimento cinematografico insieme al produttore. Non a caso in una puntata di Report di qualche anno fa affermava con orgoglio: «Il produttore è l’anima di un film. Senza un produttore un film non si realizza. Segue tutto, fino al marketing». De Laurentiis esordisce come giovane attore in un filmetto di Emanuele Caracciolo, Troppo tardi t’ho conosciuta (1939). Ma la strada giusta non è la recitazione; “dopo essersi guardato allo specchio”, secondo le sue parole, De Laurentiis decide di intraprendere la carriera di produttore, iniziando un solido apprendistato nella Lux di Gualino. Non abilissimo nel cercare la soluzione più economica, ma convinto delle proprie idee e affamato di successo, in pochi anni De Laurentiis costruisce (inizialmente con il socio Carlo Ponti) una solida realtà produttiva. Stimato a Hollywood, Dino De Laurentiis pensa sempre in grande e sviluppa progetti che varchino i confini nazionali. Ed ecco Guerra e pace (1956) di King Vidor, Barabba (1961) di Richard Fleischer, La Bibbia (1966) di John Huston. Nel 1972 lascia l’Italia ed emigra negli Stati Uniti, in polemica con la nuova legge del cinema che riserva i sussidi solo ai film al 100% di produzione italiana. L’Italia, in fondo, è sempre stata stretta a questo suo “gigantismo” fatto di talento e fiuto per gli affari. Ma i film prodotti sono innumerevoli e alcuni vere e proprie “pietre miliari” del nostro cinema, da Riso Amaro (1948) di Giuseppe De Santis a Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, da Miseria e nobiltà (1954) di Mario Mattoli a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, Leone d’Oro a Venezia. Con Federico Fellini ottiene due premi Oscar rispettivamente per La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957). Nel 1948 con l’amico Carlo Ponti realizza il primo film italiano a colori, Totò a colori (1952) per la regia di Steno.

In America la sua carriera procede con alterne fortune, tra flop e grandi successi: tra i primi il dimenticabile Tai-Pan (1986) di Daryl Duke; tra i secondi la felice collaborazione con Sidney Lumet in Serpico (1973) e I tre giorni del Condor (1975). Suo principale merito è quello di aver dato fiducia a Michael Cimino dopo il disastro commerciale de I cancelli del cielo (1980), riportandolo al successo di pubblico e critica con L’anno del dragone (1985).

De Laurentiis privilegiava il pubblico, non l’autore. Non era sempre facile confrontarsi con una personalità del suo calibro, pronta a tutto pur di ottenere il risultato prefissato. Ne ha fatto le spese L’oro di Napoli (1954), con il taglio della stupenda scena del funeralino, giudicata deprimente e non in tono con il resto dell’opera; oppure Dune (1984) di David Lynch, con il regista che ora spende parole di rimpianto per il produttore ma che all’epoca disconobbe il film per i limiti imposti. "Il problema dei registi italiani” dichiarò De Laurentiis ricevendo il Leone d’Oro alla carriera nel 2003 "è che vogliono fare i film con un occhio alla critica. Noi però siamo show-man e dobbiamo fare film solo per il pubblico. Ora voglio dimostrare al cinema italiano che ci sono grandi storie da raccontare. Ho voglia di tornare in Italia a lavorare per fare dei film che riescano ad uscire dall’Italia". Purtroppo non c’è stato tempo e modo per questo “ritorno”, ma i film di De Laurentiis resteranno per sempre nella memoria e nell’immaginario collettivo del nostro paese.


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