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Addii - Emidio Greco

Pubblicato il 28 dicembre 2012 da Alessandro Izzi


Addii - Emidio Greco

Emidio Greco nel cinema italiano c’è stato e non c’è stato.
Il contesto produttivo e distributivo, con tutte le sue contraddizioni interne, lo lasciava perplesso, incerto. Preferiva tenersene a distanza di sicurezza, forse per accertarsi che non gli facesse troppo male.
Eppure, malgrado la posizione defilata dal suo modo di essere artista e di far cinema, quel sistema fu abbastanza vicino da ferirlo comunque.
Lo ferì, di fatto, quando bloccò Ehrenagard (id., 1982) in un cassetto di buone intenzioni. Contribuì, in quel caso, il fallimento della Gaumont Italia, che lo aveva prodotto e riuscì a garantirgli solo una distribuzione semiclandestina nel 1986 prima che il film fosse rilevato e ridistribuito (sempre male) venti anni dopo, nel 2002.
Ma lo ferì sempre tutte le volte che era possibile farlo, tutte le volte che si decideva in quante copie fare uscire un suo film e in che modo lasciarlo fuori dal dibattito culturale e produttivo del paese.
Il vero problema era che Emidio Greco faceva un cinema che non si sposava con le logiche di mercato italiane. Neanche con quelle del mercato culturale e festivaliero che, più aperto, pensava a film esportabili all’estero e capaci di eternare il mito dell’italiano artista, sognatore e anche un po’ Dongiovanni che non necessariamente suona solo mandolini e mangia per lo più pizza.
Il suo cinema era elegante e raffinatissimo. Era una danza di idee sulla superficie sempre bianca dello schermo. Ambiva alla dinamica pulita e bellissima degli astratti giochi di concetto. Pittorico quanto basta e al tempo stesso pieno di musiche sublimi. Giochi di maschere che, a grattarci sotto, ci scoprivi il senso di una cultura sconfinata che rifletteva su se stessa.
Questa idea di cinema, che pure piaceva ai critici, non stava di casa da nessuna parte. Era europea, prima ancora che italiana. Ed era italiana in un senso che all’Italia stessa sfugge ancora: un’Italia di idee, di Storia, di riferimenti culturali; un’Italia sottopelle che non si vede più da quando il cancro del berlusconismo l’ha coperta di bieche escrescenze.
Ed è anche per questo che aveva un feeling particolare con l’amato Sciascia (due volte portato sugli schermi: Un uomo semplice, 1991 e Il Consiglio d’Egitto, 2002) che al pari di lui in Italia ci stava e non ci stava.
Il suo non fu mai un cinema letterario. Neanche quando adattava per lo schermo opere altrui. La sua Blixen (Ehrengard) e il suo Adolfo Bioy Casares (L’invenzione di Morel, 1974: folgorante esordio proprio sul finire della stagione d’oro del cinema italiano che si avviava verso il buio degli anni ‘80) non si accontentano mai di essere mere trasposizioni su schermo di storie pensate da altri.
Emidio Greco, in fondo, pagò il suo ritardo rispetto ai tempi del mondo cinema. Quando uscì L’invenzione di Morel era tramontato il tempo dei produttori attenti a che anche un cinema d’autore potesse essere. Ci si avviava sul crinale della chiusura delle sale, verso il crollo verticale delle vendite dei biglietti, verso il dilagare del meccanismo televisivo.
In questo contesto sempre più povero che dagli anni ’80 finiva per scolorare nel bigio degli anni ’90, egli si ostinò a fare un cinema intellettuale che appariva datato anche se, di fatto, non lo era per niente. E fu costretto ad un novero di pochi film mentre tutto intorno il cinema italiano franava lasciando spazio a pochi nomi e poche speranze. Profetico ed autobiografico fu, in fondo, il titolo dell’ultimo suo film: Notizie degli scavi (2011).
Muore, in piene vacanze natalizie, sul principiare di un altro periodo di crisi con altre sale che chiudono e con altri crolli verticali di vendite dei biglietti. Come niente fosse cambiato, in fondo. Salvo il fatto che, senza lui, il nostro cinema (e non solo la nostra industria) deve sentirsi ancor più povero.


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