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Addii - Eric Rohmer

Pubblicato il 13 gennaio 2010 da Fabiana Proietti


Addii - Eric Rohmer

"Non solo vi è una bellezza, un ordine del mondo, ma non esistono bellezza e ordine che non siano "del mondo".
(Eric Rohmer)

In un’intervista di poco tempo fa a François Ozon il discorso cadde sull’influenza della Nouvelle Vague nella sua opera, così apparentemente lontana dall’esperienza cinematografica di quei giovani turchi passati dalle pagine dei Cahiers alla regia in un modo che avrebbe cambiato per sempre la cinematografia, non solo francese, e la stessa nozione d’autore.
Fra tutti gli autori citabili in questo contesto, parlammo proprio della sua ammirazione per Eric Rohmer, da cui in maniera insospettabile Ozon – anche suo allievo all’università – aveva attinto, rubando con gli occhi al maestro il tocco leggero da cui spesso si è allontanato nella propria filmografia, ma a cui ha saputo anche far ritorno con estrema naturalezza.
Mi torna in mente questo episodio perché rivedendo in quell’occasione il frammento finale de Il tempo che resta mi aveva colpito la sua specularità con l’incipit di Racconto d’estate. A ripensarci ora, con l’emozione che la scomparsa di Rohmer mi ha procurato, quella chiusura suona come uno strano, commosso epitaffio.
Il movimento à rebour che conduce il personaggio interpretato dal medesimo attore delle due pellicole, Melvil Poupaud, a tornare su quelle stesse spiagge bretoni che erano state scenario degli intrecci sentimentali orditi da Rohmer, e tornare per morirvi, solo in mezzo a una moltitudine di ignari bagnanti, proprio così come lo era stato Gaspard durante i suoi primi giorni di vacanza, mi appare oggi un’inevitabile quadratura del cerchio, la fine di un mondo cinematografico che si appresta a divenire altro.

È questo che per me muore con la scomparsa di Eric Rohmer: una fetta di cinema, con gli anni sempre più assottigliata, capace di sviluppare un pensiero trascendente a partire dall’immagine più quotidiana o banale. Il cinema nella sua forma più pura, in grado di elevarsi a idea, senza però rigettare la sua natura più fisica, ma anzi inscrivendo in essa la bellezza, entità paradossalmente fuggevole e astratta che Rohmer ha incessantemente tentato di catturare negli attimi in cui – come l’apparizione del raggio verde nell’omonimo film – l’essere umano è in un totale stato di grazia con il mondo.
Le sue immagini, i suoi intrecci così “immanenti” diventano viatici per una rappresentazione del mondo ascrivibile nell’ordine del sacro. Si librano in una sfera eidetica nella piena coscienza della propria carnalità – “dobbiamo mostrare ciò che vi è al di là del comportamento pur sapendo che non è possibile mostrare altro che il comportamento stesso” – palesando così all’interno del cinema rohmeriano una concezione dell’arte vicina alla teologia, volta a rivelare nella bellezza del mondo la mano del Creatore.

Filmare la bellezza, sentire il gusto della bellezza, come ci dice il titolo di un suo scritto sull’estetica cinematografica, è il compito che per Rohmer si impone al cineasta: “Se io filmo una cosa è perché la trovo bella: quindi vuol dire che nella natura esistono cose belle. È la posizione di ogni artista, di ogni amatore d’arte. Se io non trovassi bella la natura – la luce, l’aria, il cielo, lo spazio – non troverei bella l’opera di nessun pittore, né Leonardo, né Turner, né Haartung”.
Ho letto questa riflessione solo successivamente all’incontro, folgorante, col cinema rohmeriano, avvenuto per caso, una notte d’estate, quando il solito, immancabile Fuori Orario mandava in onda un ciclo di film dal titolo Correre, amare, sognare. Ripensandoci ora, col senno di poi, questi tre infiniti sono ciò che alimenta l’insana e folle passione di ogni cinefilo: la “corsa” delle immagini in movimento, l’afflato con cui si affronta ogni nuova visione, un desiderio che non si appaga mai, e il sogno, l’illusione – ma è poi tale? – di vivere ogni avventura possibile, di sentire sulla propria pelle le emozioni rimandate dallo schermo.
Racconto d’estate – questo il titolo del film proiettato quella sera fatale – per me rappresenta in pieno quelle forme verbali. Ci si ritrova un’energia vitale, un amore per i luoghi del racconto e per i personaggi che li popolano, che fu ai miei occhi una vera epifania di quel che il cinema poteva essere, della rarefazione cui poteva pervenire anche stando così saldamente ancorato alla fisicità dei corpi e alla potenza della natura.

Il cinema di Rohmer mi ha sempre fatto pensare alla brezza marina, così impalpabile eppure inebriante e, chissà, forse non è un caso che molte delle sue opere più belle siano state concepite bord de mer, in riva al mare, come La collezionista, il cui prologo segue i passi leggiadri della bella protagonista lungo il bagnasciuga, a sancire con malizia – il suo piede sfiora appena l’acqua – il legame indissolubile tra l’elemento acquatico e la femminilità. Oppure Pauline alla spiaggia, in cui il mare diveniva testimone silenzioso, nonché complice, degli avvicendamenti romantici, dei piccoli tranelli che alimentavano la ronde amorosa dei personaggi e della giovanissima Pauline, nel pieno della propria educazione sentimentale. O ancora la superficie lacustre attorno alla quale si consumavano ne Il ginocchio di Claire gli intrighi del seduttore Jean-Claude Brialy, beffato dalla sua stessa aria da Don Giovanni che nulla può di fronte alla inarrivabile leggerezza del femminile, sempre vincente in Rohmer all’interno dei giochi dell’amore, del caso e del discorso (due su tutti: gli splendidi L’amore, il pomeriggio e La mia notte con Maud).

È proprio la sapienza nel costruire questi impagabili intrecci amorosi la cifra più nota della poetica rohmeriana. Ma è soprattutto la loro totale lontananza dalla futilità a costituirne la qualità più preziosa.
La lucida programmaticità con cui Rohmer ha tessuto il ciclo Commedie e proverbi, quello dei Racconti delle Quattro Stagioni, il più libero ed esuberante, specialmente negli ultimi due episodi, Estate e Autunno, che fedeli al carattere delle rispettive stagioni, risplendono di una luce particolarmente rasserenante; o quello dei Sei racconti morali, sei capolavori in cui il cinema di Rohmer esplicita le proprie basi teoriche riflettendo nella banalità del quotidiano il pensiero kantiano di cui il giovane Maurice Schérer si era nutrito durante gli studi universitari in Filosofia, come se la teoria speculativa dovesse sempre essere ricondotta alla viva realtà del mondo per trovare un compimento.

Ci sarebbe ancora tanto da dire di questo suo potente legame con la realtà circostante che ne ha fatto il cantore di Parigi forse più di ogni altro cineasta. Della sua città d’elezone Rohmer ha scandagliato ogni luogo, dalla piazza di Montmartre ritrovo dei poeti simbolisti, al Marais del Musée Picasso e alla Villette di Incontri a Parigi, al Boulevard Saint Michel dei primi cortometraggi e di La carriera di Suzanne al bellissimo parco delle Buttes Chaumont protagonista de La femme de l’aviateur e che con la sua natura rigogliosa ma artificiale, come le cascate create da mano umana, può essere eletta a metafora del suo cinema, così immediato eppure calibrato, pronto a gettare il suo sguardo divino imperturbabile e a volte sornione sui fatti umani.
Tanto che fra le tante citazioni che potrebbero sigillare la sua epigrafe, la più giusta, per aderenza alla sua opera e affinità con il suo Kant, parrebbe quella stessa che campeggia sulla tomba del filosofo idealista: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.


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