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Addii - Ingmar Bergman: Finale di partita

Pubblicato il 3 agosto 2007 da Alessandro Izzi


Addii - Ingmar Bergman: Finale di partita

Quando Dio muore, la vita non può diventare altro che una mera partita a scacchi con la Morte: appena qualcosa di più che l’inganno di un’attesa. E tra le caselle bianche e quelle nere, tra le mosse preconfezionate di una strategia di gioco che sembra scritta su un manuale, quando anche la Falciatrice nera, ironicamente, si trova costretta a barare (ma non è mai dato di capire se lo fa per chiudere o per allungare il piacere di una partita la cui fine è sin dall’inizio nota) l’unica cosa che può cogliere l’occhio umano alla ricerca di un Senso è solo l’infinita gradazione dei grigi (che diventano rossi in Sussurri e grida o gialli in Fanny e Alexander) che sono il giusto mezzo del compromesso del vivere civile.
Beckett, in altri frangenti li avrebbe chiamati “neri chiari”.
Dio tace. E il suo silenzio non riesce più neanche ad essere apportatore di un qualche tipo di significato per personaggi, come quelli bergmaniani, sempre alla disperata ricerca di amore, di dialogo, di partecipazione, di reciproca, mutua/muta comprensione. Solo in La fontana della vergine c’è spazio ancora per l’ultimo miracolo dell’acqua che scaturisce dal suolo e si fa portatrice di un senso di speranza quieta e pacata capace di cancellare l’orrore del delitto e di rimandare ad un “altrove” di purezza inattingibile. Altrove è soprattutto lo spazio per un’ispirazione cupa, luterana nella sostanza e nella forma, in cui i possibili segnali del Creato si fanno ambigui, spesso orripilanti come il Dio in forma di ragno che scende a ghermire Karin in Come in uno specchio. E l’Uomo del ventesimo secolo, il padre della Bomba atomica e dei Campi di concentramento diventa, nell’occhio di uno dei registi più grandi che il cinema ci ha saputo regalare, niente più che una colonnina di fumo che “trema e si abbarbica sotto il tetto come avesse paura dell’ignoto”, ma che “se si librasse nell’aria troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare” [5].
Perché resta sempre il dubbio che non sia Dio ad essersi fatto silenzioso, ma l’Uomo ad essersi fatto sordo. Se non lo era sempre stato!
Ora anche Ingmar Bergman, come il cavaliere de Il settimo sigillo, ha concluso la sua partita a scacchi con la Morte. L’esito scontato del gioco (perché la vita tutta in fondo è un gioco, sia pur venato da sfumature di tragedia) ci strappa un gigante che aveva compiuto ottantanove anni e si era ritirato dal cinema, ma non dal teatro. Consapevole che né l’uno né l’altro possono in alcun modo cambiare il mondo (soprattutto quello capitalistico che tutto riconduce nel sistema delle sue statistiche, dei suoi numeri, delle sue cifre e dei suoi loghi) ha continuato fino alla fine a scrivere, a pensare, a produrre, ad interrogarsi perché una persona “finché vive deve continuare a fare quello che gli piace” e perché “in fondo quello che uno fa lo fa prima di tutto per se stesso, il fine ultimo è sempre quello di mettersi in contatto con gli altri” [6].
Ma nel silenzio cinematografico di Bergman non c’è solo l’affaticarsi di un grande vecchio che non ha più abbastanza energie per seguire fino in fondo le fasi laboriose della realizzazione di un film. C’è anche l’aristocratico ritrarsi di un regista che ha creduto sino in fondo nelle possibilità comunicative dell’immagine (di qui anche l’affezione nei confronti del sistema televisivo, più leggero del Cinema, ma anche capace di un’incredibile penetrazione sociale, di suggestione e di immediatezza) e che fa fatica a riconoscersi in un mondo dove l’immagine ha perso la sua purezza e si è fatta oggetto di un consumo indifferenziato per sempre inabile ad ogni forma di “dialogo”.
Molto diradati, i titoli dell’ultima produzione bergmaniana pongono ancora le domande di sempre, sono le ultime mosse di una partita a scacchi con una morte che non trova il coraggio di chiudere i conti dell’incontro. Pochi pezzi di peso intorno ad un re stanco, ma non domato, che ripensa al suo passato e a quello del cinema come il protagonista di Il posto delle fragole: il più bel film sulla vecchiaia realizzato da un autore non ancora quarantenne.
Sono film che pensano ancora alla Morte e cercano, in questo, un senso alla vita che passa. Solo che la sfinge nerovestita di Il Settimo Sigillo cede il posto ad un clown beffardo e sboccato sul cui volto pianto e riso hanno assunto i tratti di una maschera eterna (siamo in Vanità e affanni), mentre l’artista, condannato sul letto di morte come lo Schubert del film nel film, continua a comporre nonostante tutto tirando fuori dal cappello le melodie più felici mai concepite da mente umana per regalarle al mondo, perché “si continua a fare quel che ci piace fare”, ma anche “non si può fare a meno di fare quel che sappiamo fare”.
Fino in fondo alla ricerca di un dialogo con gli altri e con il Mistero, Bergman ci ha lasciato con un novero di quaranta film che sono anche quaranta immense domande rivolte a Dio e al mondo. Un lascito che illumina il nostro percorso di luci fosche, ma necessarie, nella speranza che sia arrivato, almeno per lui, il tempo di una risposta.


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