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Addii - Mario Monicelli

Pubblicato il 29 novembre 2010 da Alessandro Izzi


Addii - Mario Monicelli

La morte ha sempre attraversato il cinema di Monicelli.
Quando Totò ebbe bisogno di una casa, fu nei pressi di un cimitero che la trovò, insieme ad un lavoro che era poi quello del guardiano delle tombe.
Quando (sempre Totò) perse il lavoro per colpa di uno starnuto, fu nella morte che cercò il rifugio alle ingiustizie della vita. Un luogo luminoso, dal quale poter dettare i numeri alla moglie che era rimasta quaggiù a far quadrare i conti della famiglia e a lavare i piatti della giornata.
Non era una bella cosa la morte, nel cinema di Monicelli, ma non era neanche tanto brutta.
Ci si rideva sopra, un po’ per esorcizzarne la paura, un po’ perché era una vicina di casa silenziosa e mesta. Una compagna di viaggio che donava un poco di amarezza anche alla risata più sguaiata, anche alla festa all’apparenza più spensierata.
Se il comico era, per Monicelli, lo zucchero della vita, il senso della morte ne era il sale; entrambi ingredienti necessari alla riuscita della torta sulla quale contare le candeline da spegnere ogni anno.
E a guardare il cinema di Monicelli si ha l’impressione che ad ogni lustro che passava il cuoco aggiungesse un pizzico di sale in più nell’impasto sempre dolce e sempre buono.
Così dalla farsa delle prime pellicole, montate e pensate con un occhio allo splapstick ed un altro alla satira di costume si arrivava, piano piano, quasi senza che ci se ne accorgesse, alle meraviglie di una commedia intinta di realismo, di magia, di sorrisi e di lacrime.
E di fronte alla morte cambiava anche l’atteggiamento dell’eroe che, più vero, cedeva la maschera con strano senso del pudore.
Piagnucolava Jacovacci mentre lo fucilavano in La Grande Guerra. Diceva che era il suo compagno d’armi appena giustiziato a sapere mentre lui affrontava i fucili nell’ignoranza. Con le lacrime spogliava la guerra di ogni eroismo perché si è tutti uguali di fronte alla mietitrice triste e le bandiere hanno lo stesso significato delle lenzuola bianche stese ad asciugare. Ma balbettando parole smozzicate restituiva all’orrore un suo umorismo. Moriva rimanendo se stesso: una cosa non da poco nell’abominio della guerra.
Le sue parole smozzicate fanno da contraltare alla filastrocca che gli amici di Amici miei recitano sulla bara di Perozzi. Oscenità inventata in una lingua nuova eppure vecchia come quella di quel Brancaleone che sognava le crociate: estremo esorcismo che rende la Morte non un addio, ma un arrivederci.
È proprio attraverso questi due borbottii indistinti, attraverso queste parole non parole recitate ad un passo dalla tomba che ci piace ricordare Monicelli, maestro grandissimo d’un magistero che, purtroppo, si perde con lui.
Lui che come il Pirandello che mise in scena (da Il fu Mattia Pascal) ebbe due vite: quella della commedia e quella del realismo.
Lui che imparò presto l’arte di avvicinarsi alla Realtà per trasfigurarla nell’arte e rendercela, con questo più comprensibile anche se non meno assurda.
Lui che seppe farsi interprete perfetto di un’Italia uscita dalla Guerra e protesa in un boom economico che era più farsa che arrosto.
Monicelli lascia un vuoto che solo finte parolacce dette con affetto riescono a riempire per davvero nello spazio di un sorriso.
Malato da tempo, il regista di tanti capolavori è caduto proprio mentre quel cinema che aveva contribuito a creare cominciava a soffrire per i tagli di un governo sordo.
Lui che aveva sempre trovato nel presente che aveva intorno un motivo in più per fare cinema, doveva soffrire più di chiunque altro per gli scivoloni nel cattivo gusto, nel veliname, nel malcostume diffusi dalle televisioni che presto sciorineranno omaggi e commosse rievocazioni.
La cultura che aveva intorno non faceva più per lui da tempo visto che Le rose del deserto è un La grande guerra sul viale del tramonto.
Eppure, malgrado i segnali strani di un mondo che, anche in commedia, faceva mostra di non avere più bisogno di lui, lottò sino alla fine per il suo cinema e per la sua idea di cultura.
Sino ad oggi, quando, scivolando nella notte, ci lascia tutti orfani. Un po’ smarriti e senza più le briciole per tornare, la sera, a casa.


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