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Addii - Michelangelo Antonioni, uno sguardo laico

Pubblicato il 3 agosto 2007 da Marco Di Cesare


Addii - Michelangelo Antonioni, uno sguardo laico

Michelangelo Antonioni, fra i nostri grandi registi, è stato il meno italiano e il più internazionale: apparteneva al mondo, ma a nessun posto in particolare. L’astrazione del suo sguardo aveva una valenza neutra, sintesi dei poli opposti della partecipazione e dell’allontanamento (come Piero della Francesca che “Sebbene tratti temi religiosi, lo fa con un distacco tale, con una lucidità così misteriosa che lo si può amare pur non essendo sensibili ai soggetti dei suoi quadri” [9]), che nulla concedeva a una facile spettacolarizzazione della messa in scena: a questo percorso, che racchiude un’Avventura che non ha avuto eguali nella storia del cinema, appartiene il valore inestimabile della sua Arte. Un vedere le cose che è sempre stato completamente scevro da qualsiasi imposizione dottrinale e, perciò, totalmente sfuggente (grazie all’evidente visionarietà che si dipanava assieme alla soggettività del tempo interiore), alla continua ricerca di una libertà nel guardare, anelito di un’esistenza trascorsa a creare nuovi modi di raccontare: distaccarsi dal passato e dal presente, per immaginare il futuro, come in un film di fantascienza.

In un Paese come il nostro dove, volenti o nolenti, bisogna comunque fare i conti con il Cattolicesimo in quanto Weltanschauung (accompagnata dal Marxismo durante la parentesi del “secolo breve”), Michelangelo Antonioni è riuscito nel miracolo di volare Al di là delle nuvole, ma rimanendo il più laico fra i nostri autori, grazie a una forma cinematografica libera da ogni costrizione ideologica - e, quindi, estetica - dove la Parola (intesa sia come dialogo che come struttura drammaturgica) cade inesorabilmente in secondo piano, perdendo di Senso: come se il Verbo non possa più esplicarsi in quanto Logos ordinatore di un mondo basato sul rapporto causa-effetto.
A fare le spese di questa posizione è principalmente la categoria del Genere come scappatoia narrativa: il road-movie (Il grido, Zabriskie Point e Professione: reporter), il giallo (Cronaca di un amore, L’avventura e Blow-Up), o il mai sopportato melodramma, devono subire continue deviazioni e depistaggi, utili a svelare e demistificare i meccanismi dell’apparato cinematografico e la sua ormai consolidata classicità.

In tanti pensano – giustamente, verrebbe da aggiungere – che Antonioni abbia avuto pochi maestri: autori rigorosi come Ozu e Mizoguchi, o come Rossellini e Bresson. Questi ultimi due, anche se in modo diverso, hanno intrapreso un percorso di ricerca spirituale in senso strettamente religioso. Rossellini dopo Germania anno zero e la crisi del Neorealismo ha visto nel Cattolicesimo una Salvezza per un’umanità allo sbando (si pensi alla processione nel finale del sempre fondamentale Viaggio in Italia, datato 1953). Robert Bresson credeva che il Male fosse insito nell’uomo: fra i suoi film si può portare, come esempio, L’argent (1983), disperata parabola sulla corruzione operata dal denaro. Ma in Bresson è sempre presente un ordine del mondo terreno che viene deciso dall’alto e che si incarna in un destino crudele, che sfugge di mano ai personaggi. Questo aspetto di debolezza della condizione umana è sì presente in Antonioni, anche se, ovviamente, la sua visione non ha nulla a che spartire con un’eventuale volontà superiore, esterna ai destini umani: Dio non rientra nell’universo descritto dal regista ferrarese, anche se non ne viene negata una possibile esistenza.
La dolce vita di Federico Fellini e La notte del nostro Michelangelo (entrambi usciti nel 1960, ambedue interpretati da Marcello Mastroianni) descrivono il malessere vissuto dai due intellettuali di fronte all’Italia del “Boom”: ma in Fellini – un credente molto sui generis, ricordiamolo - e nel suo alter ego Marcello Rubini è presente una fascinazione nei confronti del Peccato, sentimento comune a molti cattolici.
Discepolo di Antonioni è sicuramente Marco Bellocchio: ateo dichiarato, artista impegnato come gli autori del “Free Cinema” e surrealista di stampo buñueliano, conserva in sé un sentimento di rabbia contro le istituzioni ecclesiastiche, tipico di quella minoranza che vive con inquietidune l’ordine mondano che parrebbe essere la trasposizione in terra della gerarchia celeste. E seguace di Antonioni è anche Bernardo Bertolucci: però Novecento (1976), ad esempio, risulta essere un affresco epico dove la Storia viene trasfigurata attraverso una religiosità socialista intrisa di senso di appartenenza alla Terra e al Passato. Entrambi, quindi, anche se per vie opposte, accarezzano tematiche assai lontane dalla poetica di Antonioni.

L’atteggiamento laico del maestro ferrarese deve, quindi, intendersi secondo il suo significato più esteso di antidogmatismo religioso, etico o ideologico. Eppure questo aspetto della sua arte non gli ha impedito di percorrere una strada di attenta critica sociale: ma senza mai incorrere nel pericolo di un intento moraleggiante e populista. Perché il cinema di Antonioni è, soprattutto, la messa in scena dell’impotenza di qualsiasi ideologia, comprese quelle della rappresentazione cinematografica, alla quale appartengono gli interpreti delle sue vicende, comunque paralizzati dalla consapevolezza del disfacimento che li circonda.
E in questo modo può ancora maggiormente esplicitarsi la crisi e il decentramento dell’uomo moderno, risvegliatosi dalle mattanze delle due guerre mondiali per rimanere intrappolato nella “ripresa” vissuta grazie alla nascente società dei consumi e alla nuova selvaggia industrializzazione. “Non sono contro il progresso. Ma ci sono persone che per loro natura, per la loro eredità morale sono alle prese con il mondo moderno e non riescono ad adattarsi. Così si verifica un fenomeno di selezione naturale” [10]: è questa la pietà per I Vinti? Di certo Antonioni non è contrario al progresso del mezzo cinematografico, lui continuo sperimentatore di mezzi e tecniche filmiche. Eppure è ben conscio di come “progresso” non significhi “evoluzione” e di come la realtà rimanga inafferrabile, a causa dei limiti del dispositivo cinematografico e dell’uomo che lo maneggia: “Quello dell’obbiettività è sempre un fatto illusorio, mi pare ovvio […]. Nel momento in cui puntiamo il nostro obiettivo, c’è una scelta da parte nostra” [11]. In proposito non bisogna ricordarsi solamente di Blow-Up e Professione: reporter, ma anche di Identificazione di una donna.
Basterebbe pensare alla figura femminile nell’opera di Antonioni per comprendere quanto questa sia lontana dagli stilemi, artistici e sociali, di tanto cinema - non soltanto italiano, a onor del vero - . In particolare bisognerebbe notare non solo come la donna sia spesso protagonista del suo cinema, ma come molti suoi film vengano rappresentati attraverso il punto di vista femminile: si pensi a Le amiche, L’eclisse e a Il deserto rosso. La donna riveste un ruolo attivo e comunque positivo, perché si espone in prima persona, riesce a sentire la crisi della società, sa sacrificarsi e comprendere il sentimento dell’amore; mentre il maschio (italiano) si mostra in tutta la sua pochezza.

David Locke è il protagonista di Professione: reporter: il suo cognome richiama quello del filosofo inglese che, nel Seicento dei sanguinosi scontri religiosi, teorizzò l’empirismo come unica fonte di conoscenza, contro qualsiasi aprioristico innatismo; fu il fondatore della corrente politica del Liberalismo, si prodigò in favore della tolleranza religiosa e della separazione tra Chiesa e Stato, ipotizzò una religiosità avvicinabile tramite la razionalità, fu il predecessore dell’Illuminismo. E David Locke inizialmente ci viene presentato come un grande professionista dotato proprio di uno straordinario spirito di osservazione. In Antonioni, però, sono sempre presenti i temi camusiani dell’assurdo e dello scacco: “Lo spettro delle nostre possibilità, la libertà umana, si scontrano con i limiti dell’esperienza intersoggettiva, e – dentro l’individuo – si coagulano nel peso del prima, del tempo, del passato irrecuperabile” [12]. E il nome David è ispirato, forse, a quel Bowman che nel 1968 intraprese un viaggio iniziatico verso il 2001 di Stanley Kubrick: un’altra odissea fantascientifica, opera di un mistico laico, profeta della razionalità applicata al cinema, dove, però, la perdita di sé porta al raggiungimento della frontiera ultima per l’Uomo e alla sua definitiva rinascita nella perfezione. Ma l’utopia sessantottina, si sa, durerà solo lo spazio di una breve stagione.
Tanto che l’America di Zabriskie Point, già nel 1970, potrà simboleggiare il distacco tra il Sogno dei ventenni – impossibile da realizzarsi – e il principio di Realtà rappresentato dagli adulti. E a Daria non rimarrà che ricordare l’Amore vissuto nel deserto e immaginare l’esplosione di una villa con i suoi oggetti di consumo (tutto molto Pop-Art, anche se con una carica eversiva che era estranea a tale movimento, troppo presto inglobato nei meccanismi della produzione capitalistica), accompagnata dal grido del Roger Waters di “Careful With That Axe, Eugene”.
Anni prima il deserto esistenziale si era tinto di rosso - il colore dell’anima secondo il Bergman di Sussurri e grida - nelle visioni di Monica Vitti-Giuliana. E diventerà un antro giallo e accecante, vasto come l’infinito, in cui si disperderà il grido del reporter David Locke. Ma il deserto è stato anche l’E.U.R., vuoto décor in cui la mdp si muoveva alla ricerca di un senso dell’esistere, sovrastata da un’Eclisse che oscurava il sole per renderci ancora più chiaro quanto, ormai, la deriva dei sentimenti fosse diventata ineluttabile. E questa è l’unica verità.


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