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Addii - Suso Cecchi D’Amico

Pubblicato il 31 luglio 2010 da Alessandro Izzi


Addii - Suso Cecchi D'Amico

Il cinema italiano, ancora oggi, sembra essere prevalentemente il cinema dell’aneddoto, dell’abbozzo, della novella piccola che si chiude nelle sue piccole suggestioni.
Il film ad episodi, trionfale trovata di una stagione ormai conclusa, ma che ogni tanto viene rispolverata (vedi i vari manuali d’amore) era solo il segno forse più sincero di tutto un cinema che al suo interno è sempre stato episodico nel suo modo di narrare e di porgere.
Al cinema italiano è quasi sempre venuto a mancare il gesto romanzesco, l’ampia campata narrativa capace di modulare su tempi lunghi un’idea capace di andare oltre la cronaca spiccia. E quando si volgeva - e quando si volge tuttora - in commedia (dal momento che le corde del dramma raramente riescono pizzicate bene dagli autori di ieri come da quelli di oggi) la struttura a sketch diventava - e diventa - oltre che funzionale, obbligatoria, necessaria ai tempi e ai modi di un film in cerca di risate più o meno grasse.
La propensione all’episodio è stata sempre l’alibi per lo sceneggiatore italiano in cerca di facili guadagni. È stata il letto sul quale cullarsi in dubbie sicurezze quando, di notte, si ha poca voglia di lavorare. Soprattutto è stata la scuola di autori che pensavano al Boccaccio e non alla Divina commedia, all’idillio e non al poema sinfonico, allo schizzo e non al dipinto. Povertà d’ambizione, questa, nella quale si potevano trovare anche gemme acuminate, momenti di autentico lirismo e, qualche volta, poesia dell’assoluto.
Suso Cecchi D’Amico è stata, nel corso della sua spropositata carriera, forse l’unica figura capace per davvero di rifuggire l’episodio e di trovare la strada maestra del romanzo. Non a caso fu amata da Visconti con cui collaborò quasi sempre e di cui conservò un ricordo geloso che seppe in qualche caso trasformarsi in autentico restauro (Ludwig, senza il suo illuminato intervento, sarebbe ancora un fotoromanzo a puntate di un’ora e mezza).
La sua era una propensione all’impalcatura laddove il film finito era il palazzo.
La singola scena le diceva poco. Era il complesso, l’intero edificio, a definire il senso dell’operazione dello scrivere per il cinema. E sapeva farsi da parte quando sentiva che la penna non poteva arrivare là dove solo la macchina da presa poteva.
Consapevole del fatto che lo sceneggiatore è sempre al servizio di un altro, riusciva a far sì che il suo lavoro sapesse adattarsi, di volta in volta, a quell’altro che avrebbe dato immagini alla sua pagina scritta.
Eppure, malgrado la sua posizione volutamente ai margini del processo creativo di un film, le sue sceneggiature sono sempre riconoscibili, recano sempre in calce, una sua firma assolutamente chiara.
Il dialogo fulminante la lasciava per lo più tiepida. Ma il modo in cui i suoi personaggi riuscivano a trovare la strada della parola, in tempi lunghi, sapeva lasciar sgomenti come un tuono di notte.
Il suo più grande pregio era riuscire a sfondare la bidimensionalità dello schermo (e l’ancor più risicata bidimensionalità della pagina di un copione) con una messe di riferimenti culturali davvero capaci di mimare la polifonia di una fuga di Bach.
Le davi una storia di passione e morte in quel di Milano e lei sapeva trovarci Thomas Mann e Dostoevski. Le mettevi tra le mani il romanzo di Tomasi di Lampedusa e lei, scavando, trovava Proust.
Anche nella commedia dette frutti imperituri. E nella forma della struttura ad episodi seppe cercare il romanzo di formazione (Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano) o i pannelli dell’ampio affresco anche televisivo (La Storia).
Nel cinema coniugò Rosi e l’impegno sociale, Antonioni e la fine del mito borghese, Comencini e le maschere. Nel pieno del neorealismo cantò la fine di un’epoca in Bellissima e subito dopo quella di un mondo e fu Senso.
Ora se ne è andata, a novantasei anni, quando non scriveva più da quattro. Con lei se ne è andato un pezzo del nostro cinema grande come una casa. Difficile che qualcuno se ne renda conto in un mondo in cui casa è sinonimo di Grande Fratello. E non quello di Orwell.


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