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Addii - Wes Craven e un’America da incubo

Pubblicato il 1 settembre 2015 da Stefano Colagiovanni


Addii - Wes Craven e un'America da incubo

Una volta Stephen King scrisse che il male, gli incubi e le nostre peggiori paure si celano nella vita e nei dettagli di tutti i giorni, che questi esistono dentro e tutt’intorno a noi e che nessuno può riuscire a estirparli del tutto dalla nostra esistenza, perchè a lungo andare diventano parte integrante del nostro piccolo mondo. Un concetto ardito, forse, ma sincero, per quanto possa apparire stravagante. Questo, Wes Craven, lo sapeva fin troppo bene. Regista colto (Craven si laureò in lettere e filosofia presso la Johns Hopkins University) e sensibile ai difetti e alle bruttezze di una società, quella americana, in continua evoluzione-espansione, spinta dalla crescente aggregazione multietnica mai completamente lasciata libera di prosperare, dalle difficoltà socio-politiche di una nazione dedita all’iniziativa militare e strangolata dalla diffidenza della classe borghese prosperata negli anni successivi al dopoguerra nei confronti degli altri ceti (e viceversa), Wes Craven si innamorò presto dello strumento cinematografico e lo sfruttò con ardore e dedizione, consapevole di riuscire a raccontare la storia e le paure della sua America, come forse nessuno prima di lui era riuscito a fare. E il cinema horror era l’unica valvola di sfogo, l’utensile perfetto per riuscire a dare corpo al suo genio straripante. L’utilizzo del genere horror come un moderno vaso di Pandora da scoperchiare per inondare le masse con i loro stessi incubi cementati nei diversi strati della società americana fu il biglietto da visita del giovane Craven che fin dal suo primo lungometraggio (L’ultima casa a sinistra, del 1972) osò mettere a nudo e criticare l’incontrollabile flusso di violenza che imperversava in quegli anni nelle strade, senza risparmiare accuse alle forze dell’ordine additate di inefficenza e incapacità; un torrente di iper-violenza, sesso senza inibizioni, abuso incontrollato di sostanze stupefacenti sfociante in una bolla di isterismo collettivo, in grado di annientare le speranze delle nuove generazioni. Un tema caro al cineasta di Cleveland, quello del futuro di una società immobile e assuefatta dai propri vizi, schiacciata dai propri incubi, dallo spettro di un nuovo naufragio economico: ma per colpire nel segno, Craven si rese conto di aver bisogno di una leva con cui forzare l’immaginario collettivo. Un simbolo. Una maschera terrificante. Così scelse un lodevole attore teatrale di nome Robert Englund, lo vestì con un maglione a righe, cappello scuro, volto deturpato e ustionato e micidiali artigli sferraglianti al posto delle dita e nel 1984 nacque Freddie Krueger (Freddy, come viene chiamato oggigiorno), la materializzazione dei nostri incubi, uno dei tre serial killer demoniaci più famosi della golden age del cinema horror, assieme a Michael Myers e Jason Voorhees. Craven scelse Freddy come il suo campione oscuro per mettere definitivamente alla berlina la classe borghese americana, troppo pigra per aver cura dei propri figli, in una società in cui cominciava ad aleggiare lo spettro di individui completamente alienati, disinteressati e troppo cinici per proter progettare in grande il futuro delle nuove generazioni. La distruzione del Sogno Americano, dei sogni dei giovani incapaci di vedere oltre il portico delle loro case era per Craven quasi un’ossessione, una macchia d’inchiostro indelebile su seta bianca. Il successo che maturò con A Nightmare on Elm Street sconvolse il mercato americano e non solo, costituendo per Craven il suo primo trionfo commerciale, che gli regalò fama e lo lanciò nell’olimpo dei cineasti più brillanti e visionari dell’epoca. Un successo che si ripetè sul finire degli anni Novanta, quando Craven decise che era giunto il momento di affondare la lama del coltello ancor più in profondità, ancor più nello specifico, pugnalando senza pietà il cuore pulsante del marcio business del mondo cinematografico: Hollywood. Nel 1996 il mondo intero fece la conoscenza di Ghostface, l’ultimo vero serial killer degno di essere menzionato nei dizionari in materia. Non solo la diffidenza riposta nella borghesia, non solo la sciagurata metamorfosi degli adolescenti americani proiettati verso il nuovo millennio, ma una critica pura e feroce nei confronti di una macchina economica (quella cinematografica) fin troppo spregiudicata, corrotta da un afflusso economico sempre crescente, e disinteressata a raccontare, con il solo pensiero di un profitto sempre maggiore. Craven conosce le estreme conseguenze della commercializzazione, del suo impatto sulle mode e le ideologie di una società frentica, mai sazia, spesso aggressiva e affascinata dalla perfezione estetica e dall’apparire. Così il volto deformato di Ghostface in Scream (rubato da “L’urlo” del pittore norvegese Edvard Munch) simboleggia il brutto, la deformità e l’imperfezione che tanto terrorizza (e continuerà a terrorizzare) la società moderna. Ma non fu con Scream che Craven iniziò a dedicarsi alla denuncia di una visione irrealistica e fittizia della realtà moderna, senza le imperfezioni e le diversità che tutt’oggi la arricchiscono: l’idea alla base di un altro classico del genere horror, Le colline hanno gli occhi, mira a far luce sugli effetti devastanti del controllo nucleare avviato e perpetrato nel corso del secondo conflitto mondiale a opera del governo americano, un modo come un altro, secondo Craven, di incenerire decenni di sviluppo tecnologico e industriale; si allungano le ombre degli spettri degli scellerati test atomici, il terrore dell’uomo medio della prospettiva di un terzo conflitto mondiale, il disastro umano delle morti causate dalle radazioni e dalla tensione di uno stato di sospensione tra guerra e pace momentanea che getta l’America post anni Cinquanta nell’incertezza e nel timore di ritrovarsi di fronte a un futuro ignoto. Per gran parte della sua carriera come regista, Wes Craven non ha mai sottovalutato le enormi potenzialità del cinema horror, delle sue sfaccettature, quasi costringendolo ad accantonarlo soltanto in pochissime occasioni, permettendogli di lavorare alla scrittura di graphic novel o all’intrattenimento seriale sul piccolo schermo (Ai confini della realtà, Ten Commandments), ma è il cinema lo strumento espressivo più caro al regista di Cleveland: a Craven va reso merito per il coraggio e l’originalità delle sue pellicole più famose, costruite sulla base di un linguaggio tecnico personale e innovativo, costituito di campi lunghi e medi in strettissima correlazione, un montaggio capace di mutare improvvisavente andamento, in un susseguirsi di movimenti della macchina da presa congeniati ad arte per realizzare sequenze oniriche (complici suggestivi effetti di sfocatura ottenuti grazie al supporto di lenti speciali), come se ne vedono, per esempio, durante i passaggi nel mondo dei sogni (incubi!) abitato da Freddy. Uno stile schietto, crudo, quasi carnale, che nasce ispirandosi al cinema di culto di Mario Bava, infallibile nel condensare la suspense nei momenti in cui ne viene richiesto il bisogno; uno stile che sfrutta una buona dose di violenza mai fine a se stessa, mai volgare, anzi necessaria per tenere incollato lo spettatore, che ne diventa presto dipendente, ne brama la forza visiva e simbolica, ma al tempo stesso s’intimorisce, si spaventa, nonostante tutto sia solo finzione. O forse è così che lo spettatore svela a se stesso l’arcano, con la consapevolezza che nel cinema di Wes Craven il confine tra finzione e dura realtà è più sottile di quanto sembri.


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