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Afraid of the dark

Pubblicato il 18 luglio 2016 da Alessandro Izzi
VOTO:


Afraid of the dark

La paura dell’ignoto nasconde spesso una mancanza, un senso di vuoto e lo squilibrio di un’incertezza sui pochi passi del nostro vivere più quotidiano.
Il vuoto che ci fa paura fuori è in realtà quello che abbiamo dentro, che ci è diventato, con il tempo, sinistro compagno di viaggio. E lo stesso buio non è che un’immagine allo specchio dei nostri occhi che scavano l’abisso esterno per scrutare quello interiore che facciamo tanta fatica a raccontarci.
Allo stesso modo il bambino che ha paura dei suoi giochi, ci racconta non tanto la paura dell’oggetto, quanto quella delle relazioni che si intessono intorno a quell’oggetto e che mimano quelle interpersonali di un mondo che si comincia ad esplorare da troppo poco tempo. Ogni giocattolo è sempre l’inizio di un transfert, un ponte per aiutare a interpretare il reale che ci circonda, per cercare quelle chiavi interpretative che facciano da grimaldello per un mondo che sfuggirà sempre al nostro desiderio di comprenderlo e, quindi, controllarlo.
Afraid of the dark racconta solo all’apparenza la storia di un bambino che ha paura del buio. La macchina da presa che esplora la stanzetta dell’infanzia colma di giocattoli e delle loro ombre per trovarci dentro le apparenze di un horror possibile, in realtà, racconta altro.
Racconta di una famiglia dai confini incerti, slabbrati in un quotidiano che cerca l’abitudine della normalità, ma a stento la trova.
L’incipit del corto è all’insegna della destabilizzazione. Un bambino viene messo a letto, ma non, come sarebbe lecito aspettarsi dai racconti delle favole, da una madre, bensì da un padre che lo accudisce in modo distratto, ma non privo di affetto.
Non c’è traccia della donna in nessuna delle immagini del corto: ferita dolente che resta aperta, in vista, anche se mai detta, mai dichiarata né a parole, né a fatti.
Dove sia è la domanda senza risposta che si riverbera però nei gesti e negli sguardi di entrambi i personaggi.
Il bambino si piazza sotto le coperte e subito il vuoto prende il sopravvento sul sonno e la paura riempie gli interstizi del suo vivere più intimo. Nel buio il dinosauro giocattolo (simbolo archetipico della figura genitoriale presente/assente) ruggisce (come farà il padre quando il bambino dichiarerà di aver paura), gli angoli bui si fanno sinistri e pieni di presenze.
In poche inquadrature il regista costruisce con curiosa partecipazione la paura del bambino a non bastare a se stesso e la mancanza dolorosa di punti di riferimento. Non solo la madre manca, ma anche il padre è andato a leggere per conto suo una favola da grandi, in un libro senza figure, che ancora non può capire.
Il bambino chiede allora luce.
Il paradosso della costruzione narrativa di Afraid of the dark sta quindi nel fatto che la luce, cinematograficamente, non serve a sostituirsi al buio, ma a riempire un vuoto: un vuoto esistenziale esemplificato da un vero e proprio buco nell’inquadratura.
Il corto vale, sin qui, più per quello che non dice (ma cui allude) che per quello che è fatto oggetto di sguardo e racconto.
Ma non bastano le lampadine a riempire il vuoto. Esse possono solo scacciare la paura del silenzio un poco più in là, ma non a eliminarla.
Per addomesticarla, sta qui la grande lezione del corto, non bisogna cancellarla, ma comprenderla e abbracciarla.
Quando nel finale, assai pudicamente poetico del corto, il padre porta il bambino a contemplare il cielo stellato dicendogli (favola superflua, perché il piccolo già dorme, rassicurato) che il buio è un’illusione perché c’è tanta luce nel creato anche di notte, in realtà lo invita non a cercare la luce, ma ad abbracciare il nero della notte perché c’è lui in quel nero e tutto il riflesso dei suoi dubbi. Ma nel raccontare questo, esso racconta soprattutto la scoperta numinosa che non era una lampada che il piccolo cercava, ma una presenza in un mondo troppo fitto di assenze dove il riscoprirsi padre sta tutto nell’accettare a farsi “pieno” per colmare ogni doloroso nulla.
Afraid of the dark è così un corto dal respiro dolce che alla fine rassicura. Con quieto stupore per le piccole cose che dobbiamo imparare a riguardare con occhio di bambino. Un’operina piccola, ma densa di emozioni. Giocata in punta di penna e splendidamente ricca di atmosfera.

Tweeting: Delicata favola sul senso della paternità colto con l’occhio dell’infanzia.

Where to: Vincitore della Menzione per la Regia al Festival Internazionale “Visioni Corte”


(Mørkeredd); Regia: Øyvind M. Saugerud; sceneggiatura: Øyvind M. Saugerud; fotografia: Øyvind M. Saugerud; musica: Sindre Bergsvik; interpreti: Ivar Nergaard, Eilif Nergaard; produzione: Hyenafilm AS; origine: Norvegia, 2016; durata: 10’


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