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Anniversari - Auguri Wes, signore dell’incubo tra fiaba e politica

Pubblicato il 1 agosto 2009 da Fabiana Proietti


Anniversari - Auguri Wes, signore dell'incubo tra fiaba e politica

Wes Craven compie settant’anni. E già di per sé l’evento è destabilizzante. Quando si pensa a colui che ha dato forma agli incubi di più di una generazione è difficile non immaginarlo come un essere sovraumano, ben al di là della caducità della vita, simile ai suoi stessi antieroi eternamente giovani. Invece questo anniversario diventa momento di riflessione per guardare indietro, alla lunga e brillante carriera di una delle personalità più rilevanti del New Horror americano.
Era il 1972 quando, dopo diversi progetti di cinéma verité – più inclini alla realtà materiale del porno che alle interviste rubate di Jean Rouch – il filmaker laureato in filosofia irrompeva nel cinema di genere con una pellicola ancora oggi disturbante per il crudo realismo delle torture e delle mutilazioni.

L’ultima casa a sinistra è un esordio potente, capace già di enucleare alcuni dei temi portanti del Craven maturo: tra tutti il gioco autoriflessivo sul cinema, che nasce in maniera più immediata e semplice con questo primo film – remake horror de La fontana della vergine di Bergman – per poi tradursi in meditata e intelligente rilettura dei generi forti del cinema americano con il successivo Le colline hanno gli occhi. Qui i perni della morale western vengono ripresi in una prospettiva rovesciata che condanna le spinte alla violenza dei presunti eroi, assimilandoli, invece – nel momento in cui ne affiora l’animalità messa a tacere sotto la patina della civiltà – alle figure mostruose del film.
È un elemento, questo, che si ritroverà sempre nel sottotesto dei suoi racconti neri: una malvagità riscontrabile tanto nel villain vero e proprio quanto nella presunta vittima. Dai genitori di L’ultima casa a sinistra, che si dimostrano non meno violenti, all’occorrenza, degli assassini della figlia, incarnando così l’America repubblicana pro pena di morte, alle famiglie in campeggio armate fino ai denti, che finiscono per soccombere, però, ai reietti della società che loro stessi hanno contribuito a creare, arrivando infine al comitato del vicinato di Nightmare, reo di aver ceduto alla follia da giustiziere.
Sono solo alcuni esempi della logica craveniana, che insidia il dubbio morale nello spettatore, ricordandogli come il mostro sia la sua metà oscura. Il suo lungo viaggio nella cultura – e nella cinematografia – americana viene pertanto condotto all’insegna di una continua e pervicace critica allo stile di vita imposto dai media e dalla classe borghese.

Quello di Craven è un orrore politico che va a intaccare istituzioni primarie come la famiglia, prima cellula sociale, di cui il cineasta osserva chirurgicamente i meccanismi attraverso cui vi si inocula la violenza, e i suoi stessi tentativi di sopravvivere.
I suoi film degli anni Settanta sono fertili rielaborazioni critiche di schemi sociali e cinematografici: entrambi vengono rivisitati, adattati alla poetica di Craven nella misura in cui l’autore può rovesciarne il senso.
Dal punto di vista metacinematografico, come ha brillantemente notato Roy Menarini, i primi film craveniani offrono una duplice e contraddittoria visione del mito western: si è dalle parti del neo-western, in cui i bianchi sono cattivi, e tramite la figura del padre-pistolero viene portato avanti il discorso sul declino dell’eroe avviato da un testo base per la formazione degli autori neo-hollywoodiani (e “neo-horroriani”), come Sentieri Selvaggi. Ma, al tempo stesso, permane l’impronta del genere classico, in cui gli indiani/mostri sono feroci.

Non sembra esserci scampo, dunque, il male esiste ma è dentro di noi. È parte di un patrimonio genetico cui non bisogna opporre altra forza e violenza ma piuttosto un insospettabile candore. Perché se il mito della frontiera e della difesa della proprietà – così come la coercizione politica evidente nel contesto haitiano di Il serpente e l’arcobaleno – costituiscono la qualità politica del suo discorso poetico, l’altra metà del cielo è rappresentata dall’universo fiabesco, e dalla messa in scena di paure ataviche legate al mondo infantile.
Le sue opere migliori sono proprio quelle in cui l’elemento politico e quello fiabesco si fondono insieme, regalando pellicole che uniscono alle emozioni forti di trascinanti sequenze di suspense moniti di natura politica: è il caso del suo capolavoro, Nightmare on Elm Street, in cui il mostro Freddy Krueger e il suo antro/fabbrica (solo nel Nuovo Incubo avrà le sembianze di un voluttuoso inferno pagano) diventano specchio della crisi dell’era reaganiana, riallacciandosi alla galleria di mostri ‘operai’ iniziata dal Leatherface di Tobe Hooper.

Ma politica e fiaba si fondono mirabilmente anche in un film meno celebrato come La casa nera (più suggestivo il titolo originale, People Under the Stairs) del 1991, sorta di doppio horror del coevo Jungle Fever di Spike Lee, imperniato su contrasti razziali nel ghetto.
Romanzo di formazione fiabesco, che sembra girato seguendo le funzioni di Propp, La casa nera è un fulgido esempio di cosa Craven opponga al Male: l’innocenza di un bambino, in grado di sconfiggere con astuzia celeste la malvagità di una coppia di pseudo-marines armati fino ai denti (altra frecciata contro il militarismo fai da te in nome della salvaguardia della proprietà privata), variante maschile della figura della final girl – che sin dall’esordio con L’ultima casa a sinistra (ma lì con un sacrificio simile a quello di Ifigenia) – percorre la filmografia craveniana.
Questa tipica figura femminile del cinema d’orrore trova in Craven un aggiornamento costante. All’interno di un genere accusato di misoginia e sadismo nei confronti delle donne, Craven individua nelle sue giovani eroine l’unico baluardo di una purezza altrimenti perduta. È quindi alle final girls che spetta il compito di condurre i giochi, di seminare trappole (Brenda in Hills have eyes, Nancy in Nightamare) o tirare calci e pugni (Sidney nella trilogia Scream) per sconfiggere un Male invariabilmente nato da una cattiva coscienza della società.
Ed è proprio con la trilogia metacinematografica che vorremmo concludere questa carrellata (dati anche i non proprio splendidi esiti del suo cinema in questi apatici anni Duemila), in attesa – come si vocifera da tempo – di un nuovo capitolo della saga.

La vocazione metacinematografica di Wes Craven, come abbiamo visto, non nasce certo con la pellicola scritta da Kevin Williamson: oltre al legame col cinema colto d’estrazione europea (Bergman), o il western, Craven ha sempre reso omaggio al suo genere, ospitando all’interno dei propri film riferimenti più o meno sostanziosi alle figure della mitologia horror classica.
Dal vampirismo rivisitato con ironia in Vampiro a Brooklyn (1996) al mito della creatura Frankestein aggiornato in salsa teen con Dovevi essere morta (Deadly Friend, 1986), fino agli zombie di Il serpente e l’arcobaleno, che discendono da Ho camminato con uno zombie di Tourneur.
Il legame con questo film e questo tipo di orrore suggerito si manifesta proprio nella scelta di Craven di omettere per una volta sequenze orrorifiche esibite in virtù di una lenta ma costante immersione nel clima esotico ed esoterico della storia. La sequenza iniziale della sepoltura di un uomo vivo, del Premature Burial, si rifà a una lunga tradizione che parte dal Vampyr di Dreyer per arrivare a Sepolto vivo di Roger Corman. Craven la riadatta con una sintesi formale di grande valore e raffinatezza, avvalendosi di un solo, scioccante elemento: le lacrime che solcano, nel silenzio più assoluto, la guancia dell’uomo cui una folla in lutto sta rendendo omaggio.

Tra remake più letterali, come The swamp thing, Il mostro della palude, che si richiama alla tradizione dei fantahorror anni 50, e creative rielaborazioni dello slasher movie – Nightmare deve molto al Carpenter di Halloween – sul finire degli anni Novanta Craven&Williamson danno vita a una ironica e cinica sintesi dei canoni dell’horror adolescenziale di cassetta, con riferimenti che spaziano da Black Christmas di Bob Clark (le telefonate dell’assassino) a Venerdì 13, modello per il teen horror più commerciale.
La trilogia Scream e Nightmare Nuovo Incubo – in cui il gioco autoriflessivo è esplicitato dal procedimento narrativo della mise en abîme – rivelano il potenziale teorico di Craven nella sua riflessione costante sui meccanismi di rappresentazione cinematografica.
Nel corso di una lunghissima carriera che lo ha reso probabilmente il più popolare tra gli esponenti del cinema horror americano, Wes Craven ha portato lucidamente avanti un discorso coerente che trova le basi nell’ideologia neohollywoodiana in cui si è formato, in quel militante ribaltamento prospettico dei valori imposti a cui l’horror politico di Craven non può fare a meno di richiamarsi, con un’ambiguità e una relatività morale che costituiscono il suo carattere più moderno.


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