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Anniversari - Marilyn Monroe: Storia di un’immagine e della sua ombra

Pubblicato il 23 agosto 2002 da Alessandro Izzi


Anniversari - Marilyn Monroe: Storia di un'immagine e della sua ombra

“Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo non perché avessi bellezza e talento. Ma perché non ero mai appartenuta a nessuno”. Questo scriveva Marilyn nei suoi taccuini, in un momento di consapevolezza profonda circa la sua tragedia più vera: il non poter essere per se stessa.
Come donna, Norma Jean Baker fu completamente divorata dalla sua stessa immagine in una forma di auto cannibalismo di cui ella era vittima e carnefice al tempo stesso, e tutti i film da lei interpretati (non ha importanza quale fosse la storia in essi raccontata) erano essenzialmente la messa in scena dolente e tragica di questo suo pasto dantesco.
Non che il personaggio che si trovava costretta ad interpretare fosse qualcosa di totalmente estraneo dal suo essere più vero, il problema era, semmai, che tale personaggio era costretto, con doppia catena, alla rigidità e alla fissità dolorose di una maschera. Nell’indossarla, in fondo, l’attrice non doveva muoversi ed agire secondo dei modelli di comportamento che non le appartenevano perché i bronci che tanto elettrizzavano le folle, i sorrisi fanciulleschi e sexy che finivano per addolcire anche i più indigesti tra i film erano realmente i suoi, le appartenevano fin dalla più tenera età e da ben prima che alla compisse il suo ingresso nel mondo dello spettacolo. Il problema era, piuttosto che questi gesti erano fermi, erano la stop motion di un preciso momento della sua vita ed ella era costretta a ripeterli, ora e per sempre, in ogni suo film come in ogni momento della sua vita in pubblico.
Certo, a pensarci, in questo suo legarsi ad un’immagine, Marilyn Monroe non è diversa da chiunque altro, perché, in fondo, ciascuno di noi, quando messo a contatto con gli altri, indossa sempre una qualche maschera che si è scelto o che gli altri gli hanno imposto. Ma le maschere che indossiamo, spesso senza neanche accorgercene, non riescono mai ad opporsi davvero al divenire inarrestabile della vita, al continuo mutare delle cose. È come se fossero di gomma, di quella plastica che, a contatto con il calore del Tempo e con il lavorio incessante della Morte, si deformano, si sformano abbastanza perché le nostre mani espertamente inconsapevoli possano rimodellarle seppur di poco.
La maschera che Norma Jean Baker aveva indossato e che poi il pubblico aveva voluto costantemente riconoscerle addosso aveva, invece, la durezza del granito e la testarda persistenza di un fotogramma di pellicola sottratto al suo moto vitale.
Per il pubblico Marilyn Monroe era come il personaggio Alleniano di La rosa purpurea del Cairo, sfuggita, per chissà quale arcana magia da qualche schermo cinematografico e messa a contatto con la vita vera. Con il magico sfolgorio dei suoi capelli biondi ella aveva il privilegio di poter portare nel piattume grigio delle esistenze degli americani un po’ dello sfarfallio dorato di un mondo di sola celluloide. E gli americani l’amarono proprio per questo: per la sua capacità di illuminare le loro vite con la luce abbagliante, ma effimera del Cinema.
E, per questo, la condannarono ad una solitudine senza rimedio, quella solitudine che solo una persona che sa di non poter appartenere a nessuno può provare. Una solitudine cui ella stessa si condannò dal momento che non seppe mai neanche appartenere a se stessa costringendosi all’assurdo di voler essere una cinematografica immagine in movimento ferma.
Ecco! A quarant’anni di distanza, ormai, dalla sua morte, quando ormai la scritta The end è sfumata sulla sua esistenza e le luci in sala si sono, finalmente accese, quello che rimane (oltre a qualche titolo davvero indimenticabile per la Storia del Cinema) è proprio questo: la storia triste e misteriosa di un’immagine e della sua ombra.

[agosto 2002]


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