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Ki

Pubblicato il 5 settembre 2011 da Annalaura Imperiali


Ki

Tutto si potrebbe riassumere nella proposta di una particolare istallazione artistica tridimensionale: Ki si chiude in una gabbia, come quelle che si usano solitamente per gli animali, e guarda suo figlio, Pio che rappresenta il “frutto dell’amore”, seduto su una di quelle piccole seggioline giocattolo per bambini, . Perché in fondo è questo ciò che crede Ki: l’amore è un fuoco di paglia che, creando una nuova vita, distrugge quella di chi ha deciso, volente o nolente, di tenere questa nuova vita dandole una possibilità.

Ki, protagonista dell’omonima opera prima del regista Ladzek Dawid, è una ragazza madre che sperimenta giorno per giorno la solitudine e la durezza di una vita in cui niente viene dato gratis. Il padre di suo figlio, Anto, l’ha abbandonata a se stessa incurante delle grandi responsabilità che un uomo adulto dovrebbe assumersi in ogni caso e soprattutto di fronte alla nascita di un bambino che ha il diritto alla felicità e alla serenità dell’unione familiare. Ki impara in fretta l’arte dell’arrangiarsi: va a vivere a casa di un’amica, si barcamena tra telefonate incerte che sembrano rinvigorire barlumi di speranza su qualche possibilità di cambiamento, cerca molteplici lavori, non tutti umanamente appaganti e dignitosi, per arrotondare quei “cash” che le servono per lo stretto indispensabile e poco più. C’è un’estrema tristezza negli occhi di Ki, una tristezza che le toglie a tratti la bella giovinezza di cui quest’ultima gode, a fronte della preoccupazione costante per avversità che sono difficilmente gestibili se non si ha una spalla su cui poter fare affidamento.

Oscillando tra la tematica della denuncia e quella del dramma sociale, Ki porta in sé il seme germogliante delle problematiche attuali: i giovani non hanno sussidi e, se non rientrano in quelle norme della società non scritte che impongono di fare pochi figli e tardi per evitare la precarietà economica, si trovano troppo spesso isolati dal circuito dell’autorealizzazione personale. Il dio-denaro comanda a bacchetta dettando usi e costumi, leggi e inganni, diritti e doveri: nulla ci si può permettere, nemmeno il sorriso, se il portafogli non lo consente e se priva delle possibilità di vivere variando quotidianamente la propria agenda e la propria tabella di marcia. Ki tiene stantia, da questo punto di vista, un’aria già asfissiante che è quella del doversi costruire ogni cosa, dal lavoro alle relazioni interpersonali, dalla casa ai contatti che agevolino la terrena realtà degli spostamenti urbani e dei comodi strappi in macchina.

Ma Ladzek Dawid, non accontentandosi soltanto di dipingere una certo non lodevole caratteristica dei nostri scenari sociali, fa di più. La denuncia arriva perché, attraverso la protagonista Ki, la quale segue la sua piccola ma pur sempre spontanea vocazione artistica, Ladzek Dawid stesso filma - con la videocamera amatoriale che Ki prende in prestito da uno dei personaggi della pellicola - quegli elementi della vita di tutti i giorni che danno il titolo alla corruzione, ai rapporti di favore in cui si è quasi costretti a dimenticare il significato della parole rispettabilità e amor proprio, alla legge del “do ut des” in vigore dal tempo, ormai eccessivamente lontano, in cui ci si è dimenticati di uno dei doni più grandi che si possano dare o ricevere: l’aiuto gratuito.


CAST & CREDITS

(My name is Ki) Regia: Ladzek Dawid; soggetto e sceneggiatura: Pawel Ferdek, Ladzek Dawid;montaggio: Jaroslaw Kaminski; scenografia: Ewa Skoczkowska; costumi: Dorota Roqueplo; interpreti: Roma Gasiorowska (Ki), Adam Woronowicz (Miko), Kamil Malecki (Pio), Krzysztof Ogloza (Anto), Sylwia Juszczak (Dor); produzione: Skorpion Arte; origine: Polonia, 2011; durata: 91’.


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