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Autori contemporanei e derivazioni classiche

Pubblicato il 12 dicembre 2005 da Sila BerrutiAdriano Ercolani


Autori contemporanei e derivazioni classiche

Pur nell’estrema varietà di linguaggio cinematografico adoperata dai maggiori autori americani contemporanei che si sono confrontati con un genere “aperto” come la commedia, una costante rintracciabile nelle loro opere più significative è senza dubbio il ri-accostarsi alla poetica di alcuni maestri del periodo “classico”; mutuandone e rielaborandone alcuni stilemi pienamente riconoscibili, molti cineasti di oggi hanno dato continuità ad un modo di realizzare la commedia che si protrae ormai dagli anni ’30. Proporre una visione completa di tutti i cineasti che hanno fatto loro la lezione dei “grandi” del passato sarebbe un lavoro praticamente impossibile da realizzare, per cui ci limiteremo a mettere in luce e ad analizzare alcuni casi tra i più singolari. Sorvolando dunque sull’accostamento ovvio, tanto/troppo esplicitato dalla critica tra Wooldy Allen ed i Fratelli Marx e lasciando ad un altro pezzo di questo speciale una riflessione sul rapporto tra il cinema di Cameron Crowe e quello di Billy Wilder, partiamo dai “fratelli terribili” del cinema americano, quei Joel ed Ethan Coen che continuano a professarsi ammirati allievi di Preston Sturges, ma che in realtà si muovono con bizzarra disinvoltura anche verso altri insospettabili registi. Prendiamo ad esempio “Mister Hula Hop” (The Hudsucker Proxy, 1993), l’opera dei Coen che maggiormente si accosta alla tradizione codificata della “screwball comedy”: oltre il solito spirito iconoclasta ed in qualche modo surreale, che avvicina il loro cinema a quello più sbarazzino di Sturges - ma che è d’altronde rintracciabile in tutte le loro commedie, partendo da “Arizona Junior” (Raising Arizona, 1987) fino ad arrivare all’ultimo “Ladykillers” (id., 2004) - per il resto il film è un riferimento più vicino alle tematiche ed ai personaggi di Frank Capra: lo sparuto ed ingenuo Norville Barnes protagonista di “Mister Hula Hop” altri non è se non una riproposizione del personaggio classico dell’opera capriana: il famigerato John Doe, o mr. Smith, o comunque si voglia chiamarlo, interpretato dai James Stewart o Gary Cooper di turno. Attraverso la parabola del volenteroso “self-made man” che si scontra-confronta con un mondo più complesso e vorace di lui, quello metropolitano (leggere in filigrana una benevola ma ironica critica della società capitalista americana), i Coen hanno realizzato il film che ha forse più punti di contatto con le regole ferree del cinema classico hollywoodiano, avvicinandosi a quel “populismo” ottimista che regolava il cinema di Capra. Nelle altre commedie firmate dai fratelli di Minneapolis la chiara matrice derivata dall’opera “altra” di Preston Sturges si esplicita con maggiore evidenza, fino ad arrivare all’omaggio dichiarato - seppur del tutto tangenziale - di “Fratello, dove sei?” (O Brother, Where Are you?, 2000): il titolo originale del film è infatti lo stesso che Joel McCrea, il personaggio del regista de “I dimenticati” (Sullivan’s Travels, 1941), sognava di voler girare a tutti i costi. A parte questo piccolo vezzo cinefilo che dimostra l’attaccamento dei due autori al vecchio cineasta, come abbiamo prima soltanto accennato l’influenza di Sturges sul cinema dei Coen sta nella tendenza a voler essere sempre in bilico tra un tipo di spettacolo popolare che però tende ad essere invece più smaccatamente personale, fatto di un umorismo grottesco e spesso paradossale: pensiamo ad esempio già alla prima commedia dei Coen “Arizona Junior”, piccolo capolavoro di non-sense che gioca tutta la sua forza espressiva sull’iperbolicità di situazioni, personaggi e soprattutto interpretazioni degli attori - su tutti gli “impazziti” Nicolas Cage, Holly Hunter e John Goodman -. Questa tendenza è rintracciabile in tutte le commedie dei fratelli Coen, e trova probabilmente il suo punto di massima esplicitazione nel “divertissement” de “Il grande Lebowski” (The Big Lebowski, 1998). Un altro possibile accostamento, questa volta più strutturale che tematico, può essere proposto tra l’opera del maestro della “slapstick comedy” Blake Edwards e colui che, soprattutto negli anni ’80, ha riscritto in maniera indelebile le regole di questo genere, spesso contaminandole attraverso la fusione con altri generi come il musical o addirittura l’horror: John Landis. L’affinità tra la comicità dei film di Edwards - prendendo come pietra di paragone soprattutto i suoi capolavori che vedono Peter Sellers protagonista - e quella di opere come “The Blues Brothers” (id., 1980) o “Una poltrona per due” (Trading Places, 1984) si trova a nostro avviso in una concezione del ritmo comico del tutto particolare; i momenti più divertenti dei due film appena citati nascono principalmente dalla caratterizzazione dei personaggi - pensiamo a Jake Blues o anche a Hrundi Bakshi di “Hollywood Party” (The Party, 1968) - , il cui umorismo è costruito attraverso la pausa, il silenzio, un lavoro perciò sulla durata dell’inquadratura che genera uno scompenso capace di produrre comicità: le migliori opere di Edwards e Landis possiedono dunque un approccio preciso al tempo cinematografico ed alla sua possibilità di generare non-senso comico. Anche se, come abbiamo gia detto, non intendiamo esaurire l’argomento con questo nostro articolo, non poteva certamente mancare all’appello uno dei più grandi maestri della commedia americana come Ernest Lubitsch. Sarebbe veramente troppo lungo stilare un elenco di tutti i registi che hanno, chi meglio chi peggio, cercato di arricchire i propri lavori con il famoso “tocco alla Lubistch”. Piuttosto ci pare interessante focalizzare l’attenzione su un particolare aspetto: non poche volte, infatti, ritroviammo nella struttura delle raffinata commedia Lubitschane il gusto del doppio, dei due mondi che avanzano parallalellamente, dei due universi nel contempo simili e diametralmente opposti tra di loro. L’esempio più immediato è chiaramente quello di “To be or not To be” (t.i. Vogliamo vivere) ma, se analiziamo con attenzione la fimografia del regista berlinese ci accorgiamo di come lo stesso identico schema si ripeta anche in commedie come “Angelo” o “Cluny Brown” che, solo apparentemente, non sembrerebbero prestarsi a quasto tipo di analisi. Mentre in “To Be or Not to Be” il mondo dei doppi viene adirittura interpretato da una compagnia di attori, in commedie quali appunto “Angelo” a fare da contro canto al mondo “principale”, quello cioè dell’alta borghesia, sono maggiordomi e i servitori, Questi ultimi, simpatici e divertenti personaggi hanno,tra le altre, la funzione di aricchire la pellicola con esilaranti gag quasi in stile Buster Kiton ed emulano il mondo dei borghesi tanto da essere fedeli al galateo molto più dei loro stessi padroni. Riprende ed esaspera questo tipo di concetto un altro dei registi che più volte si è confrontato con il genere della commedia: con "Gosford Park",infatti, Robert Altman ricrea una perfetta struttura Lubitschana lasciando adirittura il mondo dei signori sullo sfondo e focalizzando l’attenzione su quello dei servitori; Certamente più cupo e meno esilarante,rispetto a quello del suo “maestro”, l’universo dei maggirdomi di Altaman è anche qui l’esatto doppio di quello dei padroni e fino a ricalcarne addirittura le gerachie sociali. Mentre Lubitsch.si limita a far assumere ai suoi personaggi solo l’attegiamento dei padroni, Altman priva i servi di ogni identita tanto da farli chiamare con il nome del signore a cui, in questo caso è necessartio dirlo, “appartengno”. Benché il risultato sia diverso la struttura di "Gosford park" riprende in pieno,quindi, quella delle pellicole di Lubitsch. E’ chiaro che spesso la lezione dei grandi del passato viene quindi reinterpretata in chiave presente e quelli che prima potevano essere solo degli “escamotage” possono diventare il pretesto per racccontare la difficoltà del nostro tempo.


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