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Beautiful

Pubblicato il 23 ottobre 2002 da Alessandro Izzi


Beautiful

Beautiful è, probabilmente, il più perfetto esponente, ancora oggi attivo e vitale, del racconto seriale: un profluvio incessante di situazioni-racconto che tiene incessantemente inchiodati alla poltrona un numero assai considerevole di spettatori. La formula narrativa sulla quale basa il suo successo si è venuta man mano codificando nel corso di anni di programmazione e si è a tal punto calcificata che ha finito per determinare un vero e proprio catalogo/inventario di regole che gli autori rispettano con incredibile pertinacia. Nelle linee generali, l’impostazione e la struttura dei segmenti narrativi che compongono i vari episodi non si differenzia poi di molto dal classico e ormai rodatissimo meccanismo riscontrabile in tutte le soap americane: montaggio lineare e alternato di vari spezzoni tra loro quasi del tutto autosufficienti, impostazione estremamente classica della messa in immagine del mondo (una fotografia piana, tutta centrata su primi e primissimi piani con rari totali, per lo più in interni) e del racconto (un montaggio interno estremamente sequenziale basato su una percezione naturalistica degli ambienti entro cui si svolge la scena: in asse, con rari e mai funzionali scavalcamenti di campo). La telecamera agisce sul profilmico in maniera pressocché invisibile: carrellate e panoramiche sono rarissime e utilizzate soltanto per seguire personaggi in movimento. Notevole, invece, l’impiego drammaturgico delle carrellate ottiche, sia per centrare l’attenzione sull’espressione di un singolo personaggio (zoom in), sia per mostrare, in forma di piccolo colpo di scena, elementi inaspettati nell’ambiente circostante al soggetto della ripresa (zoom out). L’angolo di ripresa tendenzialmente è sempre frontale (angoli eccentrici sono usati solo in scene marcatamente oniriche) e si adatta ai personaggi messi in quadro per enfatizzarne o sminuirne la statura, o per cercarne il miglior angolo di ripresa (il famigerato lato maggiormente fotogenico). Il meccanismo che governa la successione dei vari segmenti narrativi è puramente statistico e si basa per intero su quelle che sono le aspettative del pubblico (che, incredibilmente, finge di partecipare ai gettonatissimi colpi di scena messi in atto nel racconto, in una partecipazione al gioco spettacolare, inaudita ed affascinante) costantemente monitorato attraverso forum ed indici di gradimento di vario genere. Il singolo segmento segue un copione abbondantemente risaputo. Di solito si apre con un’inquadratura che ci immette direttamente nella situazione narrata e prepara un montaggio classico su cui lentamente si costruisce, attraverso dialoghi di rara ovvietà, una situazione in genere protesa verso l’isolamento di un personaggio (colpevole di una qualche azione nefanda che sta per essere, o è già stata, smascherata) rispetto agli altri. L’inquadratura che chiude la sequenza è sempre un primissimo piano il cui valore catartico (come reagirà il personaggio messo alle strette da questa situazione appena descritta?) è sottolineato da un pedale musicale su un accordo irrisolto e da un breve e mai repentino zoom in sul volto del personaggio. La tensione ottenuta con questa chiusa ad effetto è immediatamente contraddetta della sequenza successiva che si apre sempre in anticlimax ricreando un’atmosfera di calma relativa. Sin qui il meccanismo, per quanto sfruttato con rara abilità, non si discosta di molto da quello delle altre soap. Ciò che lo rende originale ed interessante in Beautiful è il raffinato gioco di incastri, l’abilità artigianale nel dosare le pause del racconto e i momenti più concitati, le oasi di riflessione e di introspezione e le scene, per così dire, di azione. Attraverso questo gioco da manuale, gli autori si divertono ad irretire il proprio pubblico con situazioni palesemente assurde, ma che vengono rivissute dai protagonisti della vicenda con una rara adesione spirituale (le interpretazioni per la verità tendono a mimare il processo di immedesimazione piuttosto che ad attuarlo sul serio, ma il gioco riesce). Urtando la finta pruderie del pubblico con rare e patinatissime sequenze appena soft (personaggi a torso nudo che si rotolano su letti sofficissimi tra lenzuola vaporose e candele fumiganti) messe in quadro in maniera spesso rigida (i due amanti che si parlano senza guardarsi negli occhi mentre uno dei due abbraccia l’altro di spalle in modo che tutti e due siano frontali rispetto alla macchina da presa), la soap mette in scena il degrado dell’istituzione familiare. Tra corna e controcorna che si chiudono in assurdi matrimoni riparatori, andando ad ingolfare le logiche dell’albero genealogico (una donna è contemporaneamente madre, zia e nonna del bambino che porta in grembo), tutti i personaggi anelano in fondo ad una mitica famiglia ben ordinata, governata dall’amore e dal reciproco rispetto. Il pubblico si riconosce, in ultimo, non solo nel continuo soggiacere dei personaggi alla legge del desiderio, ma anche e soprattutto a questo inesausto ed inappagato desiderio di una vita facile e lineare. Beautiful si differenzia dalle altre soap (che pure sono ennesime saghe familiari) proprio in questo: nell’essere riuscita a portare consapevolmente a livello narrativo questo senso dello sgretolarsi del legame familiare trasformandolo in un vero e proprio schema attanziale. Nella famiglia-organismo, protagonista, va ad inserirsi sempre un elemento estraneo che, agendo come un virus, mina dalle fondamenta la stabilità familiare attaccandosi, indifferentemente, a tutte le cellule (si pensi a come, in passato, Brooke abbia sposato tutti gli uomini di famiglia o a come, più recentemente, siano entrati in scena personaggi come Deacon). Presto accolti in maniera più (Amber) o meno amichevole (Brooke) in seno al gruppo familiare, questi personaggi sono sempre lì a ricordare a tutti la precarietà dell’istituzione della quale sono ammessi, in via più o meno provvisoria, a far parte. È probabilmente a questa logica quasi antropologica che si deve il successo di questa soap.

[ottobre 2002]


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