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Beket

Pubblicato il 22 febbraio 2009 da Edoardo Zaccagnini


Beket

Se c’è un film che indica un’altra strada per il cinema italiano, questo film si intitola Beket. Una strada, diciamolo subito, che come al solito non verrà presa in considerazione da nessuno. Può non essere facilissima la completa comprensione di questo film splendido, sorprendente, ermetico, criptico e personale, la sua riflessione pur interessante sul senso dell’esistenza, ma l’opera manuliana possiede un’energia spaziale, narrativa, formale e linguistica, una forza ed una fantasia improvvise, che già da sole, al di là di interessanti contenuti di cui è fatto il film, dicono molto su quanto sarebbe possibile fare oggi con il cinema, anche con pochi, pochissimi soldi. La stessa comunicazione verbale dei personaggi, per quanto riguarda le scelte stilistiche del film, avviene per versi, filastrocche bizzarre, canzoni e suoni sgangherati, deliri ad occhi aperti, giochi virtuosistici di parole, frasi reiterate a non finire, deliziosi pasticci di lingue e citazioni. Questo aspetto estetico di Beket è importante prima della parabola esistenziale proposta da Manuli, attraversando il capolavoro Godot decisamente a modo suo. Una parabola esistenziale che pure è sentita, presente e viva nel film. Pensiamo, in termini di sostanza contenutistica, al dialogo sul rapporto dei protagonisti con Dio: secco, preciso, attraente, valido, originale. Oppure alle parole conclusive di questa singolare favola cinematografica, che si chiude proprio con una citazione di Samuel Beckett: “Mai null’altro. Sempre tentare, sempre fallire. Non importa. Tentare di nuovo, fallire di nuovo. Fallire meglio?”
Per ora, e forse per sempre, di Beket si sono accorti i Festival: il film ha vinto il Premio della Critica Indipendente all’ultimo Festival di Locarno (in concorso nella sezione Cineasti del presente), il Premio Speciale della Giuria a Sulmona e il Premio della Critica Indipendente a Siena. Beket, del geniale Davide Manuli, film iper allergico all’omologazione da bassa tv, è girato (in soli 15 giorni e praticamente senza soldi) in esterni diurni molto sardi e poco sardi al tempo stesso: non c’è la Costa Smeralda dell’ultimo Calà o quella delle prime vacanze vanziniane, e non c’è nemmeno la Cagliari periferica o multietinica dei dignitosi Pitzianti e Pau. Ma si allargano, agli occhi dello spettatore manuliano, luoghi incontaminati (di rocce e cieli immensi) che diventano la strada di un road movie metafisico, splendidamente fotografato quasi tutto in bianco e nero. Beket spalanca un universo estetico folgorante e persuasivo, dominato dalla bellezza disarmante dei paesaggi lunari e dall’avanzare compatto di una musica elettronica potente.
Il vero protagonista di quest’avventura produttiva e narrativa è proprio un paesaggio arido e vivo, poetico e freddo, astratto e fuori dal tempo, in movimento dentro un mondo suo, magico, insieme scarno e prosperoso, meraviglioso. Potremmo riconoscere, nel testo filmico dell’autore Manuli, la distesa desertica e lunare del lago salato di Sale Porcus, le rovine post industriali della miniera di Montevecchio, la delicatezza delle dune di Piscinas, il fascino incontaminato della spiaggia di Li Cossi, ma non importa, non c’entra la riconoscibilità: contano invece le suggestioni e le emozioni che tali paesaggi suscitano in uno spettatore frastornato perché italiano, e quindi da decenni dis-abituato al cinema, costretto a film di appartamenti in centro o periferia, stradine, negozi, tangenziali, storie lineari e comuni. Beket è quasi tutto bianco, grigio e nero. Solo per un attimo si tinge di colori bellissimi e allegri, quasi come il frammento di Deserto Rosso in cui Giuliana/Vitti racconta la favola al figliolo e la ambienta sull’isola ancora pura e soave di Budelli. Ma non si tratta anche qui (in Beket) che di un’illusione, di un istante breve prima della fine, su una spiaggia paradisiaca che i due protagonisti di Manuli pensano di avere finalmente raggiunto come se fosse la loro meta, prima di finire in un cammino circolare che riprende all’infinito, che si riorganizza in una ripetizione eterna di un identico sofferente.
Film indipendentissimo e forte, questo Beket. Terzo capitolo di ciò che l’ autore stesso ha definito “la trilogia della solitudine”, costruito su richiami atmosferici a Ciprì e Maresco, a Bunuel, a certo Jarmush e a certo Kaurismaki, nonchè, ovviamente, al Samuel Beckett di Aspettando Godot.. Di cui Manuli prende l’intero testo e lo storpia nel titolo e nel contenuto, chiamando il suo film col nome dell’autore dell’opera letteraria (solo che gli toglie due lettere) e conferendo ai due vagabondi protagonisti Vladimiro ed Estragone (qui ribattezzati Jajà e Freak e interpretati da Curreli e Jèrome Duranteau) la possibilità di muoversi alla ricerca di Godot stesso, anziché starsene fermi ad aspettare che questo arrivi da loro. I due folleggianti antieroi, scalcagnati e quasi sopravvissuti a qualche passata tragedia atomica, si mettono su una strada lunga e pianeggiante che solca un paesaggio desertico e bruciato dal sole. Lungo questo arco di spazio incandescente e ossigenato di cinema, incrociano un sacco di gente assurda e sfuggente: Adamo ed Eva, per esempio, che litigano con se stessi e col tempo, e poi la grande madre, un cowboy, personalità enigmatiche come gli agenti 06 e 08, individui stravaganti, e ancora bimbi e ragazze solitarie. Strane creature, insomma, incarnate, alcune, da tizi come Fabrizio Gifuni, Roberto "Freak" Antoni degli Skiantos, Paolo Rossi (in immagine televisiva). Per i protagonisti c’è la possibilità di lasciare l’attesa di una fermata d’autobus (il pullman intanto è letteralmente volato via, e la scena non è per niente male) e correre dietro alla propria sorte lungo una desolata terra di nessuno. I due uomini non si danno mai per vinti e decidono di andare a cercare il loro Godot.
Davide Manuli, parecchi anni fa ci regalò una bella sorpresa come Girotondo, giro attorno al mondo, anche lì opera personale ed estranea ai concetti di cinema medio o nazional popolare. Sono passati dieci anni da quella creazione folgorante, qualcuno ha scritto che Girotondo è un’opera più equilibrata di Beket. Forse, può darsi, ma la ricerca di Manuli è sempre tesa, anche oggi con Beket, prepotente, totale, decisa, di quelle che meriterebbero più parole dalla cirtica, più occasioni, più attenzione e molto più spazio.


(Beket); Regia: Davide Manuli, sceneggiatura: Davide Manuli,fotografia: Tarek Ben Abdallah; montaggio: Rosella Mocci; musica: Miss Kittin’ & The Hacker, Freak Antoni, Alessandra Mostacci, Stefano Ianne, Massimiliano Cigala, Marco Saveriano; interpreti: Fabrizio Gifuni, Paolo Rossi, Roberto Nanni, Roberto Freakantoni; produzione: Davide Manuli, Alessandro Bonifazi, Bruno Tribbioli e Blue film; distribuzione: Blue film


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