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Billie - Fuori Concorso

Pubblicato il 28 novembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Billie - Fuori Concorso

Non è la prima volta che il documentarista inglese James Erskine s’insinua, armato di cinepresa, nelle controverse vite degli altri: Reduce da The Battles of Sexes, dedicato alla tennista Billie Jane King e da Pantani: The Accidental Death of a Cyclist, il regista sembra aver conservato l’impassibile lucidità necessaria per tracciare i contorni di un nuovo, allucinato dipinto. Billie si staglia su due percorsi paralleli: quello della cantante jazz più discussa del mondo Eleanora Fagan (1915 – 1959) alias Billie Holiday e, al contempo, quello della forse meno nota ma altrettanto enigmatica giornalista Linda Lipnack Kuehl, scomparsa in circostanze misteriose prima di dare alla luce la sua personalissima monografia sulla Lady della musica. Il lungometraggio restituisce alle vecchie testimonianze di Count Basie, John Hammond, Artie Shaw e di molti altri mostri sacri del ragtime la voce perduta, impietosamente incisa sui nastri di Miss Lipnack. Lo sguardo di Erskine, come probabilmente quello della giovane reporter, non si lascia distrarre dai menzogneri fasti degli anni ruggenti, dai fumosi club in cui (così si narra) tutto pareva possibile, dai gioielli scintillanti appartenenti ad un’epoca non proprio dorata. La minimale causticità del titolo, Billie , già in parte ci riporta sulla retta via: prima di trasformarsi nella Signora delle bianche gardenie, Eleanora Fagan irrompe sul palcoscenico come una forza della natura. Figlia di una relazione illegittima fra due adolescenti, questa eterna orfana si ritrova a vagare attraverso il grande cantiere americano di inizio Novecento, talvolta imprecando amabilmente. La sua intera esistenza s’inscrive nell’infanzia mancata, nella normalizzazione di una violenza bestiale e dilagante, nell’incontrollabile collera che lega indissolubilmente l’arte alla persona. Fuggita ad Harlem, la piccola Eleanora si trasforma in Billie e, quasi fosse alla ricerca di un rifugio puerile, adotta il nome d’arte del padre, giovane suonatore di banjo conosciuto come Clarence Holiday: nasce così la grande Lady Day, sorta di cigno bianco dal canto spezzato e dal volto impassibile. L’occhio dei biografi non si scosta neanche per un secondo dal tormento che, come un incantesimo, ancora oggi ne circonda la figura – spesso gli accenti di Linda si sovrappongono a quelli della cantante, riportando in primo piano il demone segreto che ognuno ama nutrire.

La vita di Billie, lo sappiamo, è dominata da qualsiasi forma di eccesso: alcool, droga, prostituzione, relazioni tossiche, maltrattamenti. Se afferriamo tali dipendenze e le trasciniamo sullo sfondo dell’America profondamente razzista e classista del proibizionismo, otteniamo un cocktail letale. Eppure, la nostra Signora non viene mai immortalata nelle vesti (forse fin troppo scontate) di una vittima inerme o di una martire – non c’è traccia di moralismo nelle riflessioni della Lipnack, né tantomeno di umanità nei ricordi degli amici e dei colleghi. Billie cercava solo i compagni sbagliati, Billie inseguiva la morte. Billie con i diamanti alle orecchie, Billie nomade per natura e per scelta, Billie in viaggio verso lo spietato Sud, Billie perennemente ubriaca o drogata, Billie virginale con i suoi fiori fra i capelli, Billie dal fascino prorompente e disturbante, Billie sempre circondata da uomini: l’operazione di Erskine si rivela più coraggiosa di quanto non possa sembrare, perché ci fa vedere la donna con gli occhi vuoti di chi, all’epoca, l’amava pur detestandola e la detestava pur amandola.

Ancora oggi è psicologicamente faticoso assistere alla ferina interpretazione di Strange Fruit, uno dei brani più stravaganti e sofferti della storia della musica, ancora oggi sorta di tabu condiviso: “gli alberi del sud hanno un frutto strano” sillaba la piccola Eleanora rimanendo dolorosamente impassibile “sangue sulle foglie e nelle radici, un frutto strano che pende dai pioppi”. E al Café Society di New York esplode subito il pandemonio totale – nessun concerto, nessuna esibizione sarebbe in grado, ai giorni nostri, di avvicinarsi al potere distruttivo che quella strana poesia in quel preciso momento storico seppe articolare, per giunta in uno dei locali più in voga della città.

Il documentario, poi, si sfalda ripercorrendo sempre le stesse vie: il razzismo feroce degli Stati Uniti. lo sfruttamento dei media, i molteplici (e, in fondo, ingiustificati) arresti e detenzioni per droga a monito della popolazione civile, la miseria, le ombre di un passato individuale e collettivo in fondo mai rimosso. Billie è ancora incredibilmente attuale, ancora materna, ancora selvaggia, abbastanza masochista, il suo demone è anche il nostro: e quando la si sente “rimpiangere il suo uomo”, s’intravede spesso il proprio, la valigia in mano, pronto a varcare per sempre la soglia di casa.


CAST & CREDITS

Billie - Regia e sceneggiatura: James Erskine; fotografia: Tim Cragg; montaggio: Avdhesh Mohla; produzione: New Black Films; origine: Regno Unito 2019; durata: 96’.


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