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Billy Budd

Pubblicato il 14 maggio 2018 da Anton Giulio Onofri


Billy Budd

Si esce storditi, come investiti da una batosta sull’anima dall’ascolto del Billy Budd di Benjamin Britten, uno dei molti, per fortuna, titoli ancora e regolarmente inseriti nel repertorio dei teatri lirici del maggior compositore inglese del XX secolo, insieme al Peter Grimes, il Midsummer’s Night Dream, The Turn of the Screw, e l’estrema Death in Venice ispirata, più che dalla novella di Thomas Mann, dalla visione del film di Visconti. Dietro il Billy Budd c’è invece un’augusta e ufficiale fonte letteraria, e cioè il racconto omonimo di Herman Melville in una lussuosa riduzione librettistica curata nientemeno che da E. M. Forster (il quale non si trovò tuttavia a suo agio completo, e fu affiancato da Eric Crozier). Intanto un enorme grazie e un sonoro ‘bravo!’ al Teatro dell’Opera di Roma che si è aggiudicato l’allestimento del pluripremiato spettacolo firmato da una fuoriclasse del teatro contemporaneo, Deborah Warner. La scatola scenica, accerchiata da pareti di gomene e sartie, diventa ora veliero (l’Indomitable), ora cabina del Capitano Vere, ora stiva e dormitorio della ciurma, ma resta sempre e comunque una prigione chiusa tra griglie rigorose (le corde tese sembrano sbarre di una galera), in cui viene annientata ogni umana istintività verso la libertà e la bellezza, entrambe compresse, costrette, sottomesse alla ragione del codice militare e dei principi controrivoluzionari che pure avevano, nell’affacciarsi dell’800, una loro qualità e valenza. Questo racconta Melville, e questo rappresentano in termini sonori Britten e i suoi due librettisti, in questa opera ‘all male cast’ (caso unico nella storia della lirica), che rievoca in partitura il vento marino, la salsedine che impregna il legno delle navi, le pieghe delle vele, i corpi dei marinai. La nebbia e il vento di bonaccia diventano metafore delle frustrazioni di dominatori e sottoposti, tra chi se ne rende conto e chi non ne è neppure lontanamente consapevole. Ma il dato più interessante della riprova d’ascolto in teatro, grazie a un allestimento di tale levatura, attento alle psicologie di cui seguendo la musica asseconda l’evoluzione, è la sensazione di maneggiare qualcosa di ‘datato’, di apparentemente non più proponibile e giustificabile, poi invece così sorprendentemente vivo e urgente, consegnato all’eternità dell’elenco delle ingiustizie subite dagli uomini (all’inizio i marinai dell’equipaggio dell’Indomitable sono assembrati accoccolati a terra e mostrano il dorso nudo come i ragazzi del Salò di Pasolini), imposte loro da altri uomini strumenti di un Potere fondato su elementi che solo la Storia avrebbe poi plasmato, rimodellato e modificato, lasciando sul campo tutte le numerose, inevitabili vittime. Musicalmente, lo spettacolo dell’Opera è altrettanto eccezionale, grazie alla lucida e trasparente direzione di James Conlon, alla guida di un’orchestra e soprattutto di un coro che non si sono lasciati intimidire dalla complessità della musica di Britten, cogliendone tutti gli elementi di straordinaria teatralità narrativa. Una compagnia di canto che potrebbe definirsi addirittura ideale annoverava cantanti di prestanza vocale e scenica assolutamente perfetta, tra i quali è bello citare almeno il Capitano Vere di Toby Spence, e la fresca, focosa presenza del Billy di Phillip Addis, chiamato a sostituire all’ultimo momento l’indisposto Jacques Imbrailo, senza tuttavia smorzare l’apporto fondamentale di tutto il resto del cast, consapevole di partecipare ad un allestimento che resterà nella memoria del pubblico romano come uno dei più felici spettacoli del Teatro dell’Opera.


Billy Budd, opera in due atti di Edward Morgan Forster ed Eric Crozier dal racconto di Herman Melville; James Conlon, direttore; Deborah Warner, regia; Phillip Addis (Billy Budd), Toby Spence (Edward Fairfax Vere), John Relyea (John Claggart); Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma; Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Real di Madrid e Royal Opera House Covent Garden di Londra


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