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Botox - Concorso

Pubblicato il 25 novembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Botox - Concorso

Nel suo primo lungometraggio di finzione, nel film iraniano dal titolo un po’ fuorviante di Botox , il non ancora quarantenne regista Kaveh Mazaheri ci trasporta nella sua citta di nascita, una Teheran fosca, caliginosa e quasi nascosta – un po’ come i percorsi che i protagonisti dovranno intraprendere di fronte alla cinepresa.

Akram (Susan Parvar), Azar (Mahdokht Molaei) ed Emad (Soroush Saeidi) sono tre fratelli dalle vite e dai destini diametralmente opposti: Azar, la più giovane, divide le sue giornate fra la clinica di bellezza in cui lavora e la disastrata famiglia. Akram, affetta da una forma di autismo, si muove come una marionetta eseguendo gli ordini altrui. Emad, piccolo spacciatore, coltiva funghi allucinogeni nella veranda di casa e, nel tempo libero, impara il tedesco. I rapporti fra questi strani orfani fluttuano in continuazione fra un’ordinaria noncuranza e un’interdipendenza quasi viscerale. Dei genitori non c’è traccia, così come non esistono altri personaggi degni di nota che non facciano parte dell’inquietante trio. Nel frattempo, il mondo attorno sembra muoversi seguendo un ritmo a tratti vorticoso, trascinando lo spettatore in una logica dell’imprevedibilità più quotidiana di quanto non sembri.

La bizzarra costellazione è presto destinata ad implodere: in un gelido e soleggiato mattino invernale Akram, stanca delle umiliazioni fino a quel momento subite, prende pericolosamente l’iniziativa e si ribella, gettando Emad giù dal tetto. Dall’istante della rivolta in avanti, gli avvenimenti iniziano ad accatastarsi l’uno sull’altro, componendo panorami sempre più grotteschi e surreali: Azar accorre, preoccupata, e chiede al fratello morente di indicargli dove gli faccia male. Nessuno chiama un’ambulanza. Azar e Akram trasportano faticosamente il moribondo in salotto, poi in cucina, poi decidono di nasconderlo sotto il piano cottura – il tutto sbuffando e ansimando dalla fatica. Il fardello del recente lutto sembra gravare più sulle loro braccia che non sulla loro coscienza e, con stravagante freddezza, le due complici scavano una buca in giardino. Poi cambiando idea e la richiudono. Salgono in macchina e decidono di compiere un ultimo viaggio verso la palude di Hoz-e Soltan, desolata terra di nessuno in cui, prima della Rivoluzione, il regime annegava i dissidenti: il posto perfetto per far sparire un peso emotivo divenuto ormai fin troppo ingombrante. Così Azar si apre un pertugio fra il ghiaccio salato e ci inserisce il fagotto, facendolo colare a picco. Akram, ancora una volta, esegue gli ordini altrui come una marionetta vuota.

Ma questa catena delle assurdità è appena all’inizio: tornate a casa, le protagoniste dovranno inscenare un alibi credibile – non tanto per amici e colleghi, quanto per loro stesse. La routine circostante rimane inalterata, le persone esibiscono un’indifferenza spietatamente innaturale, l’universo continua a girare come se nulla fosse. Emad non è mai esistito, il suo volto comincia a svanire dalla superficie dello schermo, la zavorra è stata affondata, i vestiti bruciati, in soggiorno non si sente più parlare tedesco. La serena e apatica imperturbabilità con cui un essere umano viene cancellato ci rimanda a scenari storici terrificanti: scenari ancora impressi in una memoria collettiva che, in un modo o nell’altro, torna sempre a galla. Akram, tuttavia, non ci sta e comincia nuovamente a ribellarsi – questa volta contro la sorella, trasformatasi in nuovo aguzzino. Il suo cammino verso l’emancipazione inizia proprio dal ricordo del fratello perduto, dalla sua (in gran parte ingiusta) nobilitazione, per poi sfociare in una violenza autodistruttiva che segnerà la fine di una vita esperita soltanto a metà.

Mescolando fra loro diverse sfumature formali e contenutistiche, Kaveh Mazaheri - regista sì debutante ma che sembra aver imparato alla perfezione gli insegnamenti della grande tradizione cinematografica del suo paese, da Abbas Kiarostami in poi - crea un quadro onirico dai contorni vaghi e, al tempo stesso, incredibilmente netti. Una tagliente e sarcastica insofferenza sembra regnare sovrana nei rapporti fra individuo e collettività: sullo sfondo di una Teheran da incubo ognuno viene divorato dall’impietosa realtà dei fatti che, come un veleno curativo, s’insinua fra le rughe del passato, distorcendolo in una maschera tragicomica, da Botox appunto. Sino ad oggi, una delle opere più belle del Concorso torinese.


CAST & CREDITS

Botox - Regia: Kaveh Mazaheri; sceneggiatura: Kaveh Mazaheri, Sepinood Najian; fotografia: Hamed Hosseini Sangari; montaggio: Pooyan Sholevar; interpreti: Susan Parvar (Akram), Mahdokht Molaei (Azar), Soroush Saeidi (Emad), Mohsen Kiani (Morteza), Morteza Khanjani (Saeid); produzione: Darvash Film, 3bros Film; origine: Iran, Canada 2020; durata: 97’.


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