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Calibro 9 - Fuori concorso

Pubblicato il 26 novembre 2020 da Matteo Galli

VOTO:

Calibro 9 - Fuori concorso

Quentin Tarantino probabilmente inorridirebbe, ma chi scrive fino a ieri non aveva mai visto Milano calibro 9 , film del 1972 di Fernando Di Leo, pellicola capostipite del genere poliziottesco tratto da alcuni pezzi di racconti di Giorgio Scerbanenco e amato alla follia dal regista di Knoxville. Dovendo, però, recensire Calibro 9 di Tony D’Angelo, ci siamo messi in pari. Peccato, però, che documentarsi filologicamente sul film di Di Leo in vista di quello odierno è quasi come rileggersi il Decameron per essere in grado di guardare Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno (un “decamerotico” di quel medesimo anno 1972). Per il semplice fatto che il risultato di Tony D’Angelo è quanto di più lontano dalla grandezza e dalla coerenza del film del regista pugliese, malgrado Calibro 9 faccia l’impossibile per legittimarsi come un sequel di quel film primigenio. Così fra gli sceneggiatori c’è Gianluca Curti, figlio di Ermanno che con la Daunia Cineproduzioni aveva prodotto il film del 1972; inoltre continui sono i richiami all’opera di Di Leo: sequenze esplicitamente citate (la scena finale col mozzicone di sigaretta; l’inizio o quasi con un personaggio che esce dal carcere, Gastone Moschin un tempo, ora Michele Placido); figure che più o meno credibilmente ritornano: da quella di Michele Placido il quale sarebbe quel Rocco Musco che nel film del 1972 era interpretato da Mario Adorf oppure Barbara Bouchet alias Nelly Bordon, femme fatale, morta ammazzata in Milano calibro 9 che invece ritroviamo qua alla faccia di qualsivoglia plausibilità; e infine lo stesso protagonista, l’avvocato Fernando Piazza (Marco Bocci) sarebbe il figlio di Nelly Bordon e di Ugo Piazza, il protagonista del film di Di Leo. Chissà perché si chiama Fernando?

Se però il problema di Calibro 9 fossero solamente le incongruenze narrative rispetto alla pellicola di quarant’anni fa, sarebbe poca cosa e saremmo a cavallo. Perché tali incongruenze sono le più innocue, a pensarci bene. Fra le molte altre che attengono invece a questo nuovo prodotto, ci sia concesso citarne una delle più strane: in un film, ambientato nel mondo della Ndrangheta e in cui quasi tutti i personaggi parlano un calabrese stretto, talora difficilmente comprensibile - roba da pretendere, come nel caso di Gomorra qualche sottotitolo, per altro il riferimento alla serie e a serie consimili sul mondo della criminalità ci pare evidente) c’è la protagonista, appartenente a una delle famiglie che si contendono l’egemonia del territorio (la famiglia Scarfò e la famiglia Corapi in lotta perenne). La quale di mestiere fa l’avvocatessa infiltrata nel Palazzo di Giustizia milanese (vabbè) ma che non ha nessun accento calabrese e anzi parla anche piuttosto male l’italiano per il semplice motivo che questo personaggio di Maia Corapi è interpretata da Ksenia Rappoport che non è nata né in Calabria né in Italia ma a San Pietroburgo, in un anno, il 1974, in cui quella città ancora si chiamava Leningrado. Negli anni ’60 e negli ’70 le attrici non italiane, vivaddio, venivano doppiate per rendere leggermente più plausibile il plot. Oggi non si può fare ma il verosimile filmico ne soffre. O ci sbagliamo?

Ma fosse solo questo il problema. Tutto il film è il trionfo dell’implausibile e, in fin dei conti, di una sostanziale incomprensione nei confronti dell’originale al quale regista e sceneggiatori fanno di tutto per richiamarsi. Pensiamo ad esempio alla plausibilità, anche squisitamente realistica del dialogo fra i due commissari in Milano calibro 9 , quello interpretato da Frank Wolff, il commissario di destra per intenderci e quello, progressista, di sinistra interpretato da Luigi Pistilli; e confrontiamo quel dialogo con quello fra Alessio Boni, commissario retto ma totalmente perdente e incapace, con il suo superiore colluso con la Ndrangheta. E che dire dell’incredibile coinvolgimento dei ministri italiano e tedesco che compaiono addirittura alla riunione della Santa, la riunione dei capi della famiglia Corapi, riunione che si svolge non a caso nella città di Anversa, non a caso perché si tratta di una coproduzione italo-belga, anche se il film esibisce uno scialo di risorse per girare anche solo una scena in mille altre location sparate a caratteri cubitali davanti agli occhi dello spettatore. La sceneggiatura (o più in generale la trama) e la recitazione sono in un gran numero di casi imbarazzanti. Le scene d’azione ci sono parse semplicemente disastrose.

Calibro 9 - Regia: Toni D’Angelo: sceneggiatura:Toni D’angelo, Luca Poldelmengo, Gianluca Curti, Marco Martani; fotografia: Rocco Marra; montaggio: Luigi Mearelli; interpreti: Marco Bocci (Fernando Piazza), Ksenia Rappoport (Maia Corapi), Michele Placido (Rocco Musco), Barbara Bouchet (Nelly Bordon) produzione: Minerva Produzioni, Raicinema, Gapbusters origine: Italia, Belgio 2019; durata: 93’.


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