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Câmp de maci - Concorso

Pubblicato il 27 novembre 2020 da Matteo Galli

VOTO:

Câmp de maci - Concorso

Non sappiamo se sia consentito generalizzare ma ai festival ci sono delle cinematografie nazionali che difficilmente tradiscono, nella nostra personalissima playlist ciò vale almeno per tre casi: il cinema iraniano, quello coreano e quello rumeno. Anche il Torino Film Festival a nostro avviso conferma questo giudizio o pre-giudizio se vogliamo chiamarlo così: un ottimo film iraniano ( Botox ), un ottimo film coreano ( Moving On ) e adesso un ottimo film rumeno che si intitola in originale Câmp de maci (titolo internazionale Poppy Field ), cioè Campo di papaveri, un titolo che, come ha spiegato il regista, fa riferimento al luogo dove si svolge la gran parte dell’azione, ovvero una sala cinematografica con le poltrone tutte rosse che la fa assomigliare appunto a un campo di papaveri, un titolo che nasce tardi, a riprese ben avviate.

Il regista si chiama Eugen Jebeleanu ed è, caso raro, un assoluto debuttante, nel senso che non solo questo è il primo lungometraggio ma è il primo film tout court, fin qui aveva lavorato solo per il teatro, un po’ in tutta l’Europa occidentale. Interessante e a suo modo curioso tuttavia il fatto che il testo, non suo ma della sceneggiatrice Ioana Moraru, Jebeleanu non abbia deciso di trasformarlo in una pièce teatrale ma appunto in un film, malgrado si presti oltremodo a diventare teatro, addirittura un teatro capace di preservare le tre unità aristoteliche: unità di azione (c’è tutta: è l’incapacità del poliziotto Cristi di ammettere a se stesso e al mondo la propria omosessualità), unità di luogo (più di metà del film si svolge nella suddetta sala cinematografica), unità di tempo (tutto si svolge, come volevano i teorici del neoclassicismo francese, nell’arco di 24 ore).

Jebeleanu, invece, ha deciso di portarlo al cinema, nonostante non avesse mai realizzato neanche un corto. E ha fatto proprio bene. Perché il film, girato in 16 mm, è un piccolo gioiello proprio sul piano cinematografico oltreché su quello del contenuto, con la perfetta alternanza di piani sequenza e di numerosi primi piani sui volti dei personaggi, soprattutto di quello del protagonista, con l’uso fortemente espressivo del fuoco, della messa in quadro, delle luci, delle posizioni dei corpi all’interno dello spazio. La quasi esclusiva concentrazione su spazi chiusi, che ovviamente ingenera claustrofobia e parrebbe invitare alla teatralità, si rivela a ben vedere un’occasione che il regista sa sfruttare a meraviglia per creare tensione e tutta la gamma di sensazioni provate dal personaggio principale, su cui la mdp indugia assai spesso.

La storia è presto raccontata: Cristi (un ottimo Conrad Mericoffer), di mestiere il poliziotto, ha una relazione a distanza con Hadi, un ragazzo francofono e di fede musulmana, uno steward a quanto sembra. Ogni tanto l’amante lo viene a trovare in Romania e così appunto il giorno in cui ha inizio la vicenda, Cristi vive con molto imbarazzo la sua condizione di cui, apparentemente, solo la sorella è a conoscenza e il breve dialogo al mattino, prima di recarsi al lavoro. riassume già tutta la costellazione problematica della sua esistenza. Poi, malgrado l’occasione di trascorrere qualche ora col suo compagno che dovrebbe indurlo a prendersi magari un giorno di libertà, Cristi decide ugualmente di andare a lavoro perché sono il Super-io e il senso di colpa a comandare. Se poi teniamo conto che la sua giornata lavorativa sarà contrassegnata dall’intervento della polizia in uno scontro fra integralisti cattolici e un associazione LGBT che ha proiettato un film in una sala cinematografica, una proiezione che gli integralisti decidono di interrompere e disturbare (in Romania la questione pare ancora molto spinosa), si capisce bene come il poliziotto venga a trovarsi in una situazione ancor più complicata a cui cerca di reagire dapprima quasi assentandosi, salvo poi trovarsi suo malgrado confrontato con un ragazzo con cui ha avuto in passato un incontro occasionale e con cui, nient’affatto lucido, impaurito e vulnerabile, giunge a una colluttazione che lo pone in una situazione ancor più disagevole per lui e per il corpo della milizia a cui appartiene.

La tensione, ingenerata da questo episodio e vissuta da Cristi anche e soprattutto a contatto con i colleghi che forse hanno intuito più di qualcosa, diviene palpabile ed è raccontata con grandissima sensibilità dal regista. La lunghissima e potenzialmente violentissima sequenza nella sala rossa/campo di papaveri termina senza l’esito temuto di una denuncia anzi con uno spuntino fra colleghi a fine giornata, in un non-luogo, in un parcheggio di un centro commerciale o simili (una scena dall’inquadratura perfetta) a cui Cristi partecipa, ma la giornata è stata troppo dura, non riesce a mangiare neanche un sandwich e il problema della sua identità al termine della giornata è ben lungi dall’essere stato davvero affrontato, figuriamoci risolto. Un gran bel film, inutile negarlo. D’altra parte, il cinema rumeno…

Câmp de maci - Regia: Eugen Jebeleanu; sceneggiatura: Ioana Moraru; fotografia: Marius Panduru; montaggio: Cătălin Cristuţiu; interpreti: Conrad Mericoffer (Cristi), Radoaun Lelahi (Hadi), Cendana Trifan (Catalina), Alexander Potocean (Mircea); produzione: Icon Productions, Motion Picture Management, Cutare Film origine: Romania; durata: 81’.


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