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Cannes 2004 - Riflessioni a caldo

Pubblicato il 17 maggio 2004 da Giovanni Spagnoletti


Cannes 2004 - Riflessioni a caldo

UN CONCORSO DISEGUALE

In sede di consuntivo, non si può non constatare - ed è stata opinione largamente diffusa - come il Concorso di questa 57° edizione del Festival di Cannes non abbia regalato ai suoi frequentatori dei momenti indimenticabili, anche solo a fare un confronto (perdente) con l’annata precedente quando le scelte del direttore Thierry Frémaux erano incorse in parecchie critiche della stampa specializzata. Se questa volta le proposte della competizione sono riuscite ad attestarsi su un discreto livello generale, anche grazie all’inserimento di documentari e film d’animazione, tuttavia sono mancate - oltre agli attesissimi Michael Moore e Wong Kar-wai o al film d’apertura di Pedro Almodovar - quelle sorprese che poi servono a garantire il successo indiscusso di un Festival. A sommare la valutazione in dettaglio dei singoli film, abbiamo, però, l’impressione che si ottenga un risultato superiore a quel senso di aurea mediocritas che Cannes ha lasciato in parecchi dei suoi frequentatori. Segno quindi che anche a prescindere da alcune delusioni parziali o totali a seconda dei gusti (Kusturica, i fratelli Coen, Walter Salles, Abbas Kiarostami, ecc.), i film non siano riusciti a fare “squadra” come è avvenuto invece in passato. Comunque sia, nel “sottotesto” delle decisioni della Giuria cannense guidata da un “apolitico” sui generis qual si è dimostrato Quentin Tarantino, è lecito leggere due tendenze di fondo del cinema attuale che fanno giustizia sia dei compromessi inevitabili in qualunque Palmares sia dei semplici giudizi di gusto. A dispetto dei fautori cinefili della pura fiction spettacolare, la vita irrompe sempre e necessariamente nel Cinema e questa volta ciò è avvenuto dalla porta principale del Palais du Cinéma. D’altronde era impossibile non aspettarsi che la disastrosa situazione politica internazionale con il corollario della guerra in Iraq non facesse da prepotente protagonista sugli schermi della Croisette. La Palma d’Oro a Michael Moore per il suo vigoroso pamphlet antiBush, Fahrenheit 9/11, oltre a costituire una (tarda) rivincita di Lumière su Méliès, segnala un diffuso trend, ormai invalso negli ultimi tempi, verso l’aspetto più “realistico” e documentario della “Settima arte”. La non-fiction (o docu-fiction che dir si voglia) sembra insomma catturare, meglio di tante altre forme tradizionali, lo Zeitgeist di inizio terzo millennio, con le sue paure, ansie e nevrosi. E tutto ciò nel contesto ormai avviato della rivoluzione digitale, che con le tecnologie leggere ed economiche, il suo uso&abuso della macchina a mano introdotta da “Dogma 95” e il moltiplicarsi di forme di spettacolo spurie, sta creando una nuova estetica, bella o brutta che sia, molto diversa da quella di solo dieci anni fa. Dicono le cronache che era dal lontano 1956, dai tempi, immediatamente pre nouvelle vague, de Il mondo del silenzio di Jacques-Yves Cousteau a cui diede un notevole contributo il giovane Louis Malle, che un documentario non vinceva il massimo riconoscimento di Cannes. Ciò ci suggerisce un paragone forse azzardato e una speranza. Così come la nascita del “cinéma-vérité” o “direct cinema” alla fine degli anni Cinquanta ha accompagnato e introdotto il passaggio dal classicismo al Moderno, l’ingresso nell’epoca flamboyant dei “nuovi cinema”, ci piacerebbe pensare che la vittoria di Moore (per altro non con il suo film migliore), possa rappresentare l’anticamera di una nuova epoca a venire del cinema. Seconda constatazione: le cinematografie dell’Estremo oriente proseguono nella loro onda lunga, calamitando di Festival in Festival l’interesse cinefilo e fornendo una serie di opere ad alto livello artistico-spettacolare: da Old Boy del coreano Park Chan-wook (Gran Premio della Giuria) a Tropical Malady del tailandese Apichatpong Weerasethakul (Premio della Giuria), dalle Palma come migliore attrice a Maggie Cheung per Clean del francese Olivier Assayas (un bel mix) a quella della migliore interpretazione maschile al quattordicenne Yuuya Yagira per Nobody Knows del giapponese Kore-Eda Hirokazu, il vento dell’est ha soffiato impetuoso, travolgendo qualunque altro cinema tradizionale. E la Giuria ha “dimenticato” di includere nel Palmares - forse sarebbe stato troppo! - uno dei miglior film del Concorso, quel 2046, giunto ancora incompleto e all’ultimo minuto sulla Croisette come già avvenne per il precedente, in cui Wong Kar-wai ci offre uno straordinario e toccante esercizio di stile sui temi di In the Mood for Love. Siamo pronti a scommettere che quando uscirà nella sua versione definitiva, si aprirà una querelle su quale dei due film verrà considerato il migliore. Per il resto, sconfitto o quasi il colosso americano che riporta in patria solo un singolare ex-equo tra Tropical Malady e Ladykillers dei fratelli Coen, poco è restato ai paesi della vecchia Europa, tra cui - inevitabilmente e giocando in casa - la Francia è quella che ha conseguito il migliore piazzamento: il gitano Tony Gatlif si è aggiudicato con Exils la Palma della regia mentre il premio per la migliore sceneggiatura è andato a Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri per Comme une Image diretto dalla stessa Jaoui. Se si aggiunge l’indiretto riconoscimento a Clean, l’ultima, notevole fatica di Olivier Assayas, tornato a parlare la lingua di un tempo, il bottino dei francesi non è stato, al dunque, per niente deficitario né, comunque, immeritato.

[maggio 2004]


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