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Cannes 2010: Tante attese, poche emozioni

Pubblicato il 24 maggio 2010 da Salvatore Salviano Miceli


Cannes 2010: Tante attese, poche emozioni

È parecchio dura stilare le considerazioni finali di questa ultima edizione del Festival di Cannes. È dura ammettere, infatti, che quello che si è consumato nel 2010 resterà, nei ricordi di chi lo ha vissuto, uno dei Festival più poveri per emozioni e qualità.
A questo si associano le scelte (alcune giustificabili, altre sinceramente inspiegabili) di una giuria che alla fine, forse consapevole della poca freschezza, ha scelto politicamente di assegnare il premio più importante ad un film (On Uncle Boonmee who can recall his past lives di Apitchatpong Weerasethakul) che probabilmente sarà visto in sala solamente da un centinaio di spettatori (e per quanto tale riflessione sarebbe stato possibile farla anche nel 2009, Il nastro bianco di Michael Haneke resta comunque uno dei film migliori del panorama mondiale degli ultimi venti anni, se non un reale capolavoro) ma, cosa più rilevante, che nasconde dietro una ricerca linguistica, a volte un po’ spocchiosa, davvero poco in termini di contenuto e di efficacia narrativa. Si è voluta scegliere la diversità. A noi resta difficile riconoscere questa qualità come sufficiente per un riconoscimento prestigioso come la Palma d’Oro.
Appare inspiegabile, poi, la scelta di omettere da tutti i premi il film che di più aveva colpito pubblico e critica e che, a nostro avviso, era di gran lunga la migliore pellicola in concorso. Another Year di Mike Leigh meritava sicuramente almeno una citazione, per noi la più importante. Scontate, ma non per questo meno meritate, le menzioni a Javier Bardem e a Juliette Binoche, entrambi protagonisti, però, di film incompiuti ed assai deludenti. Meno scontata, ma assolutamente giusta, è la decisione di affiancare a Bardem il nostro Elio Germano (di gran lunga uno degli interpreti migliori del nostro cinema) in un film, La nostra vita di Daniele Luchetti, che pur senza entusiasmare rivendica la sua natura popolare, dipingendo onestamente realtà economica e sociale italiana.
È stato bello vedere il nostro attore emozionarsi vicino al grande interprete spagnolo al ritiro del premio, e dedicarlo all’Italia e a tutti gli italiani nonostante la classe politica che li governa. Peccato che “problemi tecnici” abbiano impedito agli spettatori del Tg1 di assistere all’intero discorso di Germano.
Tornando al Festival, non si può certo rivendicare l’assenza dei grandi nomi. Da Inarritu a Kitano a Loach e Kiarostami. Probabilmente i selezionatori, piuttosto che puntare sulla personalità dei registi, avrebbero fatto meglio a prestare maggiore attenzione alla consistenza, in alcuni casi un po’ troppo evanescente, delle loro pellicole. Proprio da Inarritu, infatti, è arrivata la delusione peggiore con un film che pare essere un pastiche privo di identità e, soprattutto, abbastanza noioso.
Tema importante, quest anno, poi, è stato sicuramente la politica. Due film su tutti. Shang Hai di Jia Zanghke, dedicato alla crescita ed ai cambiamenti di una delle metropoli più grandi del mondo e, di riflesso, della Cina intera, e Outside of the Law, firmato da Rachid Bouchareb sul movimento per l’indipendenza algerina contro la Francia, che ha quasi trasformato la Croisette in un ambiente militarizzato facendo storcere il naso all’establishment transalpino.
Il Fuori Concorso ed Un Certain Regard hanno regalato, fortunatamente, qualche emozione di più. Non male il ritorno di Stone nel mondo della finanza con Wall Street – Money Never Sleeps, zoppicante la commedia di Woody Allen, delizioso il peruviano Octubre, Premio della Giuria, dei due fratelli Diego e Daniel Vega, e piuttosto divertente anche la pellicola di Pablo Trapero, Carancho.
Citazione strameritata poi per Carlos di Olivier Assayas, presentato qui nella versione televisiva di cinque ore e mezza. Il suo racconto, adrenalinico e guascone, di uno dei terroristi principali della scena mondiale tra gli anni 70 e 80 regge nonostante la durata monumentale (il film andrà in onda sulla televisione francese in tre parti) e diverte sino alla fine. Simpatico, infine, Tamara Drewe, ironico ritratto sull’universo degli scrittori firmato da Stephen Frears.
La Semaine de la Critique ha visto vincere l’apprezzabile Armadillo, di Janus Metz, film di impronta bellica, mentre la Quinzaine des Realizateurs ha premiato Pieds nus sur les limaces di Fabienne Berthaud, ma ha presentato all’interno del suo programma alcune tra le pellicole migliori dell’intero festival. Non certo per campanilismo citiamo Le quattro volte del nostro Michelangelo Frammartino, lavoro che coniuga un attento studio sul valore del suono e dell’immagine, di difficile approccio, forse, per il grande pubblico, ma da rimarcare per valore e qualità (e la stampa internazionale ha dimostrato un sincero ed unanime apprezzamento).
Piuttosto che un Mick Jagger sfuggente (protagonista e produttore esecutivo del documentario Stones in Exile), a noi piace citare soprattutto il grande, grandissimo, Frederick Wiseman, documentarista geniale, che con il suo Boxing Gym ci conduce dentro una palestra in cui la Boxe è l’unica protagonista. Astenendosi da qualsiasi egocentrismo, Wiseman pare raccontare una grande parte dell’America semplicemente ponendo la sua mdp come occhio trasparente in grado di catturare la realtà.
Non resta che chiudere il sipario con un po’ di malinconia sulla 63° edizione del Festival cinematografico più importante del mondo, salutandoci però ricordando come, solitamente, quando Cannes non regge testa alle numerose attese, la Mostra di Venezia tocca vette di alta qualità. Visto come è andata, non ci resta che sperarlo.


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