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Cannes 2019 - A hidden life

Pubblicato il 20 maggio 2019 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Cannes 2019 - A hidden life

Che cosa ci fanno negli alpeggi della Val Pusteria degli anni ’30 del secolo scorso, ai piedi delle Dolomiti e dei campanili a cipolla del Sud Tirolo, due bellissimi strafighi identici a Michael Fassbender e Cate Blanchett travestiti da contadini che si rincorrono giulivi tra larici e spighe di grano dandosi affettuosamente delle pacche sul sedere, come in uno qualsiasi degli ultimi film di Terrence Malick? Guarda caso, è proprio un film di Terrence Malick (l’ennesimo, inutile, e rispedibile al mittente con tanti saluti timbrati sotto il francobollo), A Hidden Life, attesissimo suo nuovo titolo in concorso al Festival di Cannes; i due pregevoli esemplari di razza umana sono August Diehl (il giovane Karl Marx nell’omonimo film di due anni fa) e la splendida attrice austriaca Valerie Pachner: eppure dovrebbero interpretare l’obiettore di coscienza Franz Jägerstätter e sua moglie Franziska (Fani), nella vita reale assai più intenti nelle letture della Bibbia che nel giocare a guardie e ladri come fauni e ninfe in Arcadia (Fani aveva anche i baffi, altro che l’esile e slanciata figura della bellissima Pachner...). E ancora: perché coi compaesani (il sindaco, il campanaro, il bovaro, il pecoraro, il birraio...) parlano filologicamente in tedesco, mentre tra loro e coi nazisti cattivi (accidenti, che peccato rivelare fin da subito in questa recensione che il nuovo Malick è un film sui nazisti cattivi!...) parlano in...INGLESE, alla faccia della credibilità geografica del film? Parla inglese, ma lui è un nazista buono, dunque esentato dall’usare la lingua del diavolo, perfino Bruno Ganz – qui alla sua ultima apparizione sullo schermo – costretto a duettare nella lingua di Shakespeare con un suo connazionale nato a Berlino, in un film ambientato nella Germania di Hitler... Ora, immaginiamo come potessero agire, camminare, muoversi ed esprimersi tenerezza e rispetto i contadini tirolesi degli anni ’30, tirati su a burro e latte vaccino negli sperduti villaggi degli alpeggi, con quelle fisicità un po’ rotonde e sanamente tracagnotte, e con quella pudica riservatezza tipica dei contadini di montagna d’inizio XX secolo: esattamente il contrario della coppia degli sposi del film, che si abbracciano, si avvinghiano, si accasciano e si saltano addosso come una qualsiasi giovane coppia di facoltosi e modernissimi nordamericani del Connecticut... Insomma: dove sta la Mitteleuropa cattolica, montana e rurale in questo film che intenderebbe ricostruirla finendo per farle il verso e un pessimo servizio, come nemmeno il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson? Cosa è venuto a fare l’americano Malick in Tirolo, per appropriarsi di un territorio e di una cultura che non gli appartengono, per spalmarci sopra la sua statunitense melassa globalizzante e New Age, e fondamentalmente riducendo la nobilissima figura di Jägerstätter a quella di un qualsiasi pacifista pre-sessantottino, le cui profonde ragioni di non adesione all’ideologia guerrafondaia nazista vengono rappresentate e riassunte con faccine meste e imbambolate, perse nella contemplazione di celle, muri, angoli e spigoli, alternate in montaggio alle cartoline delle cime annuvolate e delle verdeggianti vallate a nord di Cortina d’Ampezzo, tra Bressanone, Brunico e Sappada? Il senso profondo della fede religiosa del pastore austriaco, beatificato dal Vaticano nel 2007, è nel film quasi del tutto assente, né risulta plausibile che un figo che assomiglia a Michael Fassbender si rifiuti di indossare la divisa e di andare a combattere in trincea perché credente in Dio Padre Onnipotente. Ci si attendeva – e va detto che da questo punto di vista la delusione è per fortuna inferiore alle previsioni – che dopo le recenti strampalate rapsodie esistenziali dei film successivi a The Tree of Life, con questo A Hidden Life e con il recupero di una trama narrativa coerente e consequenziale, Malick avesse ritrovato un po’ di quella forza espressiva che fu cifra magnifica e indimenticabile dei suoi primi film, risalenti ormai agli ultimi anni ’70 del secolo scorso: in effetti, va ammesso che il fluire di una storia lineare limita quella fastidiosa tendenza al volo pindarico ingiustificato che nei film realizzati in questo anni ’10 del secolo ha infestato il suo cinema: ciò nonostante permane anche in quest’ultimo lavoro, enfatizzata dall’abuso delle lenti grandangolari che deformano a sproposito volti e ambienti domestici e naturali, una incongrua dilatazione di vuoti narrativi che compromette irrimediabilmente la tenuta dell’attenzione. Sono scelte stilistiche di cui senz’altro Malick si assume la piena responsabilità, gliene va dato atto, ma chi scrive è convinto che se tornasse a concentrarsi sulla sua straordinaria sensibilità per l’elemento poetico e struggente della bellezza dell’esistere e a preoccuparsi di restituire veridicità storica alle situazioni e ai personaggi che sceglie di illustrare, sarebbe tranquillamente in grado di raggiungere livelli di spessore kubrickiano o viscontiano. Mostrata così, pur con splendida dovizia di dettagli nella ricostruzione d’epoca, la dolente tragedia di Jägerstätter ne esce appiattita e sgonfiata del suo stesso intimo senso storico e ideologico: non c’è una sola sequenza del film in cui August Diehl sfogli una Bibbia, quando in realtà l’attività precipua e costante del personaggio che interpreta era quella di leggerla e discuterla con sua moglie Franziska, e non certo di zompettare tra i covoni di fieno per giocare a nascondino, o di pomiciare sotto le cascate.

Sorvolando rapidamente su altri dettagli spiazzanti, come l’inserto del personaggio di un italiano compagno di prigionia di Franz, che parla come un contemporaneo in vacanza al lago di Braies preso in prestito dalle fiction con Terence Hill girate in quegli stessi luoghi, va registrato il lavoro meno convincente del solito, considerata la sua buona cultura musicale, con cui Malick ha curato la colonna sonora: al di là del materiale composto ex novo da un James Newton Howard elegante e anglosassone, e della facile e prevedibile Passione secondo Matteo di Bach, a commento (invadente) di quanto vediamo accadere è tutto un tripudio del consueto repertorio contemporaneo postminimalista, dal solito Arvo Pärt all’altrettanto frequentissimo Schnittke, insieme a quella Sinfonia numero 3 di Gorecki che ormai suona come una tassa obbligatoria da pagare in qualunque film si provi a raccontare fatti tragici della storia europea della prima metà dell’altro secolo.

Dispiace, in fin dei conti, uscire dalla visione di un film di quasi tre ore che nelle sue fasi conclusive (dopo due ore e mezza di non sempre tollerabili deragliamenti verso il vuoto e il nulla) riesce a toccare qualche oggettiva corda di sentita commozione, costretti a registrare tanti punti a sfavore. Malick, lo si sa da sempre, è uomo dolce, umile e tutt’altro che presuntuoso: ma se riuscisse a liberarsi di quell’infantile ingenuità tutta statunitense che gli inibisce quella pratica totalmente estranea alla mentalità dei suoi connazionali, ovvero l’immedesimazione in culture diverse e infinitamente più antiche della loro, arriverebbe a realizzare – finalmente – film commisurati alla sua evidente e spontanea natura di poeta e cantore della Vita, dell’Amore e della Morte.


CAST & CREDITS

(A hidden life); Regia: Terrence Malick; sceneggiatura: Terrence Malick; fotografia: Jörg Widmer; montaggio: Rehman Nizar Ali, Joe Gleason, Sebastian Jones; musica: James Newton Howard; interpreti: August Diehl, Valeria Pachner, Maria Simon, Tobias Moretti, Bruno Ganz, Matthias Schoenaerts; produzione: Iris Productions, Studio Babelsberg, distribuzione: UGC Distribution; origine: Usa, Germania, 2019; durata: 173’


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