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Cannes 2019 - Mektoub My Love: Intermezzo

Pubblicato il 28 maggio 2019 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Cannes 2019 - Mektoub My Love: Intermezzo

Chi scrive fu tra coloro che da Venezia osannarono Mektoub, My love: Canto I, dove fu presentato in concorso nel 2017, capitolo iniziale della supposta trilogia di cui Mektoub, My Love: Intermezzo, inserito nel concorso ufficiale del 72° Festival di Cannes, dovrebbe essere il centrale, prima dell’imminente Canto II, attualmente ancora in lavorazione. In parecchi si restò incantati dalla freschezza e dalla qualità di un racconto cinematografico capace di descrivere con un realismo prossimo al prodigio, la comunità vacanziera di Sète, località marittima sulla costa meridionale della Francia, con evidenti riferimenti alla biografia personale del regista, Abdellatif Kechiche. Se al termine di Canto I avevamo lasciato i ragazzi sbronzi e felici dopo una sfrenata notte in discoteca, pretesto per inneggiare alla bellezza dei loro corpi (in particolare le ragazze, sulle cui forme Kechiche indulge con la macchina da presa insinuando nello spettatore più sprovveduto un più che vago sospetto di voyeurismo) e alla loro percezione diluita dei tempi della vita, in questo Intermezzo li ritroviamo un paio di mesi dopo, sul finire dell’estate, nella stessa discoteca, e per quasi l’intera durata del film, ovvero tre ore su circa 210 minuti.

Se tuttavia in Canto I la dilatazione e la sospensione temporale rispetto alle consuete scansioni narrative producevano un effetto di trascinante stordimento (quello cui ci si lascia andare quando si va in discoteca per ballare e sballarsi, e magari imbastire qualche inciucio erotico) in Intermezzo qualcosa non funziona a dovere. Va ricordato che siamo nel 1994, e Amin, giovane tunisino nobile d’aspetto come un principe arabo, osserva quanto gli accade intorno con gli occhi che furono gli stessi con cui Kechiche indagava da ragazzo il mondo e la realtà di quegli anni, assai diversa da quella molto più problematica della cronaca contemporanea, fatalmente segnata dai fatti dell’11 settembre 2001 e dal contrasto ideologico e religioso che continua ad inquinare le relazioni tra l’Occidente e il mondo islamico. La spontaneità e la naturalezza degli sguardi, dei gesti e dei discorsi della comitiva di ragazzi e ragazze, filmati in pedana o in spiaggia, scorrevano sullo schermo insieme alle immagini del precedente capitolo della trilogia con sorprendente autenticità. Guardarli guardarsi, parlarsi e ondeggiarsi addosso al ritmo battente della musica techno, produceva l’effetto di una beatitudine immanente, cui ci si affezionava nel mentre del suo divenire, imbambolati ad ammirare, con la complicità dell’obiettivo scrutatore di Kechiche, la procacità dei corpi, spavaldi monumenti alla bellezza della giovinezza. Di tutto questo in Intermezzo non v’è quasi più traccia: le rare conversazioni sono, salvo un paio di casi, un bla bla faticoso da seguire per banalità e inerzia. Lo scopo di estendere allo spettatore seduto in sala, dunque impossibilitato a partecipare alle danze, e anzi forzatamente silenzioso e immobile, il medesimo piacere fisico provato dagli attori e dalle attrici del film, fallisce naufragando miseramente nell’inedia di una visione ravvivata, ma solo per gli interessati (dunque spettatori uomini ed eterosessuali, vale a dire NON l’intera comunità di una platea cinematografica), dalle insistenti inquadrature di natiche e cosce muliebri che si dimenano scatenate dalla musica senza che avvenga davvero qualcosa che possa fornire motivo di appassionarsi. Sono i ‘tempi vuoti’ del cinema, che possono funzionare così come risultare estranei e distanti, in virtù di quel patto tra il regista e il suo pubblico che preveda l’abilità dell’uno di conquistarsi la paziente disponibilità all’attenzione dell’altro; un patto che stavolta pare funzionare soltanto con una fetta del pubblico maschile, incantato dalle indiscutibili avvenenze delle notevoli fanciulle che si agitano intorno alle pertiche delle lap dance, e disposto, perciò, ad abbassare il livello di guardia di un giudizio che invece non dovrebbe comunque prescindere da determinati criteri critici. Nessuno scandalo, dunque, né reprimende di natura moralista, ma solo, ed esclusivamente, molta noia.

Infine, l’ormai celebre sequenza del cunnilingio: venti minuti e passa di sesso orale consumato nelle toilette della discoteca tra Tony e la splendida, giunonica Ophélie. Kechiche ha affermato la propria intenzione di fare un cinema ‘libero’, probabilmente comprendendo in questo schema ‘aperto’ anche la scelta dei ‘vuoti’ di cui si parlava più sopra. Ma nel riprendere il sesso, specialmente nel caso in cui non venga praticato per finta ma nella piena consapevolezza di un autentico piacere reciproco che prescinda dalla presenza di una cinepresa, si verifica quel fenomeno tutto particolare che coinvolge inevitabilmente tre soggetti distinti: il regista, gli attori, e lo spettatore, catturato non solo emotivamente ma anche fisicamente per via dell’eccitazione erotica; nel caso della pornografia (dunque non certo il caso di questa sequenza), avviene che gli attori non siano, almeno da un certo punto in poi, dei veri e propri ‘attori recitanti’, perché in loro prevale via via la naturalità di un eros autentico che supera, quando non annulla, ciò che è alla base dell’arte della recitazione, ovvero la finzione; mentre il regista, notoriamente ideatore e organizzatore dei gesti, dei toni e dei movimenti di scena degli attori, viene indotto a farsi da parte dall’incremento della foia erotica che li porta ad agire senza seguire altro che la propria animalesca istintività; lui invece deve limitarsi a ‘guardare’ la scena diventando mero e semplice tramite per lo spettatore; lo spettatore, che di questo trittico è certo l’elemento più problematico, stimolato da quanto sta vedendo, sfoga, o almeno vorrebbe sfogare nella masturbazione la propria eccitazione sessuale, e raggiunto l’orgasmo, il più delle volte smette di guardare oltre. L’imbarazzo, dunque, suscitato dalla visione della sequenza del cunnilingio in Mektoub, My Love: Intermezzo, non nasce neanch’esso da considerazioni di tipo scandalistico o moralistico, al di là – ma qui si entra nello scomodo territorio delle cronache e del gossip dei set cinematografici – della reazione dell’attrice che rivedendosi sullo schermo ha abbandonato la proiezione di gala nel Grand Théâtre Lumière; nasce invece, almeno nel cuore e nello sguardo di chi è abituato a cercare nel cinema niente altro che ‘il cinema’, dal progressivo venir meno, con il salire della tensione erotica, della qualità dello sguardo di chi sta ‘guardando’ la scena con la cinepresa, cioè della ‘regia’, alla quale lo spettatore si affida come un lettore che durante la lettura di un libro segue il filo delle parole, riga per riga, pagina per pagina: senza la regia, il cinema dov’è?

Naturalmente la questione è sottile, e senza scomodare lo ‘specifico filmico’, sull’argomento sono stati versati tanti e tanti fiumi di inchiostro che non c’è, in queste righe, la pretesa di dare lezioni a nessuno; ma davvero chi scrive non è riuscito ad intuire nelle pur consapevoli e precise scelte creative dell’autore, quella natura di ‘film sperimentale’ che molti, a Cannes, hanno affermato di ravvisare in questa seconda puntata della mini-saga di Kechiche, e si augura che il prossimo, finale episodio di Mektoub, My Love torni alle altezze e ripeta la piena riuscita dell’iniziale Canto I.


CAST & CREDITS

(Mektoub, My Love: Intermezzo); Regia: Abdellatif Kechiche; sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix; fotografia: Marco Graziaplena; montaggio: Luc Seugé; interpreti: Shaïn Boumedine, Ophélie Bau, Salim Kechiouche; produzione: Quat’sous Films, Pathé; origine: Francia, Italia 2019; durata: 210’


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