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Castoro: Peter Jackson

Pubblicato il 22 luglio 2002 da Alessandro Izzi


Castoro: Peter Jackson

Il cinema di Peter Jackson è di difficile definizione malgrado l’apparente linearità e semplicità che sembra andare sbandierando ai quattro venti e che, sovente, finisce per ingannare anche lo spettatore più avveduto. In esso si incrociano e si sovrappongono in maniera vorticosa e spesso indistricabile tutta una serie di valori, di significati e di metafore a prima vista inconciliabili, ma che pure, trovano, all’interno delle varie pellicole che lo compongono, una forma di felice coesistenza. Le sue opere sono sempre il luogo privilegiato di un incontro tra elementi opposti ed antitetici, ma ciò non conduce necessariamente a fratture dolorose e a scontri interni insolubili, ma porta, al contrario, al formularsi di una luminosa idea di Cinema che coniuga la pensosità europea alla spettacolarità americana, l’esigenza documentaria (gli spezzoni di finti reportage in molti suoi film) con il gusto per il fantastico tout court. Le sue opere sono documentari del sogno, della visione e per questo non celano mai un proprio inesausto lavoro sulle fonti (reali o immaginarie che siano). In esse la macchina da presa si muove vertiginosamente (come gli insostenibili dolly de Il Signore degli anelli) in cerca della concretezza della fantasia, con la consapevolezza (molto tolkienana) che l’edificazione di un mondo, pur se costruito con parole, immagini e frammenti di sogno, richiede sempre e comunque uno sforzo sovrumano ed un impegno ed una costanza ai limiti dell’ossessione. Nelle sue pellicole è come se la certosina pazienza del miniatore o del cesellatore debba essere costretta, in un altro apparente paradosso, a prestare la sua opera alla produzione di un immenso affresco dai contorni indefinibili. Nei suoi film la vocazione spettacolare, coniugata con tutte le strategie di un’opera che si vuole come puro intrattenimento e virtuosistico sfoggio di fantasia, si unisce alla riflessione accorata sul tema stesso della messa in immagine del mondo; il gusto citazionista ed iconoclasta (che non disdegna una visione del cinema come “Baraccone delle Illusioni”) si sposa perfettamente con un discorso mai banale sulla società dei consumi che pure fa di quelle stesse immagini (soprattutto dopo il successo planetario della sua ultima opera) un privilegiato bene di consumo; il gioco esibito della fantasia non rifiuta mai di scendere a patti con il, per questo tanto più realistico, tema della dissoluzione e frammentazione del corpo. A ragione gli autori di questa pregevole monografia paragonano Jackson ad un riuscito incrocio tra la vocazione naturalistica e realista dei Lumiere con la visionarietà magica di Melies. Dei primi il regista neozelandese conserva la dimensione enciclopedica e l’idea che il cinema offra, in fondo, la possibilità di sguinzagliare per il mondo miriadi di occhi per filmare in eterno tutto ciò che è visibile, ma non raggiungibile (e del resto lo stesso occhio di Sauron si moltiplica negli infiniti occhi dei suoi emissari, tramite le pietre veggenti). Del secondo abbraccia, invece, lo sguardo tutto interno che si perde nello sforzo costante di visualizzare i sogni e, quindi, le ansie e le paure del mondo contemporaneo. Non stupisce allora che i saggisti riescano a rintracciare, all’interno dell’opera jacksoniana tutta una serie di rimandi al mondo contingente, alle sue ansie, ai suoi timori. Il suo apparente “non pensarci troppo su” che ha tanto un sapore hitchocockiano (regista amato da Jackson e continuamente indicato come modello) diventa allora solo una maschera per condurre un discorso a tutto tondo sugli orrori del mondo che ci circonda. Il suo cinema è certo, secondo la ben nota massima di Hitchcock, uno splendido pezzo di torta, ma riesce ad essere invitante allo sguardo tanto quanto è buona al gusto.

Autori: Andrea Bordoni e Matteo Marino; Titolo: Peter Jackson; Casa editrice: Editrice Il Castoro, Milano, 2002; pagg. 139, Euro 10,90

[luglio 2002]


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