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Castoro: Valerio Zurlini

Pubblicato il 23 luglio 2002 da Alessandro Izzi


Castoro: Valerio Zurlini

Chi fu, davvero, Valerio Zurlini? Un letterato prestato al Cinema, come attestano molte sue opere tratte da noti romanzi (Buzzati, Pratolini, Pirro)? O non, piuttosto, un pittore che ha voluto immergere la sua opera nella durata dei fotogrammi, ricalcando, in questo, la maniera di un grandissimo quale fu ed è Michelangelo Antonioni (e basti pensare ai continui riferimenti pittorici, un po’ in tutte le sue opere, a Morandi, Rosai, De Pisis, fino ad arrivare, incredibilmente, a Burri)? A questa difficile domanda cerca di dare una risposta Gianluca Minotti. E lo fa attraverso una monografia critica (di quelle cui ormai ci ha abituato l’Editrice Il Castoro) agile e ben strutturata che cerca attraverso i singoli capitoli di un’opera estremamente compatta, come quella del nostro, di disegnare un ritratto quanto più possibile esaustivo, di un autore più difficile di quanto non appaia a prima vista. Un regista colto che, se da un lato si volle come continuatore di una tradizione narrativa che affonda le proprie radici nell’humus ancora vitalissimo del romanzo ottocentesco, dall’altro non fu sordo alle esigenze espresse dall’arte contemporanea che quella stessa esperienza cercava di rileggere in chiave critica. In questa sua posizione limite, tra un certo gusto che potremo definire quasi calligrafico e un’attenzione al dettaglio scopertamente autobiografico, tra malinconia per il passato ed esigenza d’innovazione, Zurlini non tardò a diventare, nel contesto dell’industria cinematografica italiana, un personaggio scomodo e non classificabile. Troppo raffinato per il grande pubblico, che, di fatto, disertò gran parte degli appuntamenti (pochi ad essere franchi, soprattutto se si mette a confronto la mole di ambiziosi progetti del regista con il numero esiguo di opere poi realmente realizzate), ma troppo sfumato anche per la critica che fu sempre un po’ fredda (quando non violentemente ostile) nei confronti dell’autorialità forse un po’ troppo ostentata, dei suoi racconti filmici. Di fronte a questo materiale incandescente, che non tarda a trasformarsi in un ritratto polemico del mondo cinematografico contemporaneo all’autore, Minotti sceglie di non seguire un piatto ordine cronologico, ma preferisce ricercare tra le pieghe dell’opera zurliniana, i motivi di continuità, i ritorni tematici, i segreti della sua compattezza pur nella diversità dei singoli capitoli che la compongono. Sicché i vari film sono, dapprima raggruppati ed esaminati in base ai luoghi in cui sono ambientati. Un primo capitolo è dedicato alle pellicole fiorentine (Le ragazze di Sanfrediano e Cronaca familiare, primo riconosciuto capolavoro dell’autore), mentre il secondo è dedicato a quella che viene definita, forse con qualche forzatura, la trilogia dell’Adriatico (Estate violenta, La ragazza con la valigia e La prima notte di quiete). In questo modo l’autore del breve saggio ha modo di indagare approfonditamente sul rapporto complesso e problematico che il regista instaurava con i luoghi della sua messa in scena. Tutta questa prima parte diventa, poi, un preludio ideale all’analisi finale de Il deserto dei Tartari cui sono dedicate, giustamente, molte pagine. Il deserto, come non luogo della mente, diviene, così, una metafora fondamentale per capire retroattivamente tutta l’opera di Zurlini (ivi comprese le esperienze un po’ eccentriche di due film eccezione come: Le soldatesse e Seduto alla sua destra).

Autore: Gianluca Minotti; Titolo: Valerio Zurlini; Editrice: Il Castoro, Milano, 2001, pag. 120, Euro: 8,26

[Luglio 2002]


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