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Centravanti nato

Pubblicato il 31 marzo 2008 da Ivano Forte


Centravanti nato

Carlo Petrini è stato centravanti in diverse squadre di serie A negli anni ’70; in seguito è stato strozzino a Milano, è scappato in Normandia, è tornato al paese natale, si è ammalato, è diventato uno scrittore. Nel primo dei suoi libri, Nel fango del Dio pallone, a cui fa riferimento questo documentario e da cui è stato tratto anche uno spettacolo teatrale, l’autore ripercorreva la propria vicenda umana e professionale con la sincerità e la durezza di chi ormai non ha più nulla da perdere. Raccontava tutto sull’incredibile diffusione delle pratiche dopanti già a partire dalla fine degli anni ’60, che porterà in seguito ad una epidemia di tumori tra i calciatori da cui lo stesso Petrini non è rimasto immune; metteva in evidenza le dinamiche attraverso le quali si arrivò, nel 1980, allo scandalo del calcio scommesse e i conseguenti giochi di potere in sede processuale che lo travolsero completamente. Petrini fa nomi, riporta date e luoghi, sta attento ai particolari ma soprattutto non rinuncia mai, anche al limite dell’autolesionismo, a raccontare la (sua) verità su alcuni dei periodi più oscuri della storia del calcio di casa nostra.
Alla luce anche degli sviluppi recenti di questa storia tutta italiana il documentario di Guiducci amplifica la testimonianza di Petrini attraverso l’uso dei mezzi classici del documentario d’inchiesta: oltre che alle interviste con Petrini il regista si affida anche alle voci di alcuni amici e personaggi dell’epoca, ripropone foto, ritagli di articoli di giornale, spezzoni di programmi televisivi, ricostruisce alcuni avvenimenti.
Non è tuttavia per questi contributi che Guiducci si è meritato i premi che ha vinto, il suo approccio al film non è centrato sull’indagine dei fatti, ma sulla personalità di chi quei fatti li ha vissuti, o sarebbe meglio dire esperiti. Il vero soggetto del documentario è Petrini e Petrini ne è il valore aggiunto.
Quest’ uomo ambiguo, insieme vittima e carnefice, consapevole e ingenuo, calcolatore e istintivo, un uomo che di volta in volta mostra o nasconde le proprie cicatrici ma che in tutta la sua vita non ha mai voluto, o potuto, essere diverso da se stesso; un uomo cosi viene ripreso nel momento della malattia, e della saggezza, desiderata o meno. Una saggezza dolorosa, che morde ai fianchi dell’orgoglio e genera un sentimento di rabbia sorda e triste. La voce rauca dal timbro profondo non sembra neanche venirgli fuori dalla gola, ma da più in basso, direttamente dallo stomaco, dove stanno i pensieri che fanno male. Nelle sue parole raramente si legge il pentimento, mai l’autocommiserazione, ma mancano anche la pietà e il perdono. Per sé Petrini ha scelto la verità, da dire tutta, senza urlare ma con fermezza. E la verità, umana e storica, di Petrini, affascina e attrae come un qualcosa a cui non siamo abituati, e che desideriamo capire.
Consapevole di tanta personalità nel proprio soggetto, e probabilmente attratto da essa, Guiducci si sente libero di muoversi all’interno del proprio materiale con leggerezza, senza l’obbligo di dimostrare niente ma solo di mostrare il più possibile. Lo stile delle inquadrature, spesso sfocate e traballanti, riprende il punto di vista di Petrini, semicieco a causa della malattia, cosi che anche le foto a volte perdono nitidezza rimandando all’origine remota della memoria. La struttura del racconto documentato si svincola dalla semplice linearità temporale: inizia nel mezzo, ritorna indietro si raggiunge e si sviluppa nel finale. A volte la ricostruzione di alcuni avvenimenti è affidata alla voce dell’attore sul palcoscenico, che aggiunge quindi un surplus di interpretazione la quale lungi dal danneggiare la verità di Petrini ne esalta invece la portata collettiva. Altre volte alcuni momenti del racconto, quelli in cui è più forte l’aspetto sentimentale, si concretizzano in immagini più poetiche che descrittive: una pila di vecchi album Panini che cade nella polvere, le luci inquietanti di un appuntamento segreto, un telefono rosso che non smette di squillare. Il dato storico viene sempre ricondotto all’esperienza personale.
Nella seconda parte del documentario, diciamo dalla fine della carriera calcistica di Petrini fino ai giorni correnti, il racconto sembra subire un’accelerazione. Dove prima si parlava di date adesso si fa riferimento a periodi. Il periodo di Milano, in cui Petrini fece tanti soldi quanti ne riuscì a perdere, o quello successivo, in Normandia, un’auto esilio che gli sarebbe costato più caro di quanto avesse immaginato. La nettezza dei ricordi cede il passo alla vaghezza delle sensazioni, lo sguardo, prima rivolto a noi, ora si abbassa e si nasconde; il regista allora comincia a cercarlo anche in altri contesti e riprende Petrini tra la sua gente, nei suoi luoghi di adesso, che sono quelli di sempre. Tutto sembra precipitare verso qualcosa di oscuro, appena appena sussurrato. Chi ha giocato a calcio lo sa, il vero distacco, una volta che smetti, non è quello dal pallone, è quello dal campo. Quel rettangolo di gioco è uno spazio di vita vissuta intensamente, uno spazio segnato e regolato, mai lo stesso eppure sempre uguale, nel quale, una volta che lo conosci, puoi quasi sentirti al sicuro, forse felice. Usciti da quello spazio però ce n’è sempre uno più vasto, con molti più segni, nel quale si sa, le regole, se ci sono, sono altre.
Petrini con le regole ha giocato più volte, e spesso ha perso, eppure non è questo a modulare in un tono così grave la sua voce. È solo verso la fine del documentario che questa angoscia trova un nome, è il nome del figlio più piccolo di Petrini, morto a 19 anni mentre il padre non c’era.
Nel nominare il sentimento Petrini si scopre scrittore, scopre che il dolore può confluire nella pagina e attraverso le parole ritornare a lui in una forma più comprensibile, più accettabile. A patto però di essere assolutamente sinceri.
Il documentario trova così nel finale la propria compiutezza, l’esperienza di Petrini, descritta e caratterizzata nel particolare, diventa immagine sintetica di uno stato d’animo che se non è collettivo è quantomeno plurale.
Quell’uomo grande e malato che tocca leggero il pallone, sul campo di calcio, nell’ultima scena, è molto più di quello che vediamo.


(Centravanti nato); Regia e fotografia: Gian Claudio Guiducci; montaggio: Gianni Vezzosi; musica: Santiago Lozano; produzione: Barbara Balzaretti e Gian Claudio Guiducci per Divine Films e Officine Ubu; produttori associati: Carla Mori e Alessandro Celli; distribuzione: Blue Suede Shoots; origine: Italia, 2007; durata: 81’


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