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CINEMA ITALIANO 2010 parte prima

Pubblicato il 5 aprile 2011 da Edoardo Zaccagnini


CINEMA ITALIANO 2010 parte prima

Una palma d’oro a Cannes per la migliore interpretazione maschile, quella di Elio Germano nel film La nostra vita di Daniele Luchetti. Unico premio prestigioso per il cinema italiano di questo 2010.

Poi proteste, polemiche e qualche buon film. Ma soprattutto tanta famiglia, perchè il tema più scandagliato dai prodotti italiani di largo consumo, nell’anno salutato pochi giorni fa, sembra essere proprio quello dei rapporti di sangue tra le mura domestiche.

E se il tema della famiglia è potenzialmente un bel volano per parlare del presente, un’ottima finestra per guardare quanto accade fuori dal cortile, questo affollamento parentale puzzicchia un pò di ripiegamento sull’intimo del pubblico. Su quello cioè, che ogni persona, nel bene e nel male, conosce benissimo.

E allora ci chiediamo: si potrebbe gridare all’ennesimo atto di indebolimento del cittadino/spettatore, attraverso un drammatico inconscio artistico correlato a un progetto extra-cinematografico e politico dilagante?

Andiamo con ordine, nella speranza di trovare una risposta non semplice, e ripassiamo, insieme, un anno di cinema italiano. Cercando di capire se il nostro dubbio, la nostra impertinente sensazione - che ci sia un abuso volontario di famiglia - sia solo frutto di un teorico dovere intellettuale, anche un po’ snob, per cui il cinema è solo strumento politico e mai piacere e basta, o se il sospetto sia lecito, nell’Italia del sospetto, appunto, e del sopruso, dell’illegalità sempre più legalizzata, del complotto immaginato ad ogni angolo, della sempre più obbligata dietrologia.

Già alla fine del 2009, un film come L’uomo nero di Sergio Rubini ci aveva fatto pensare. Poi Io, loro e Lara, di Carlo Verdone, gennaio 2010, e La prima cosa bella di Paolo Virzì, sempre gennaio 2010. Passando per Baciami ancora di Gabriele Muccino, febbraio 2010, e Genitori e Figli - Istruzioni per l’uso di Giovanni Veronesi, sempre febbraio 2010. E ancora, Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, marzo 2010, ed Happy family di Gabriele Salvatores, ancora marzo 2010. Fino a La nostra vita di Daniele Luchetti, che parla soprattutto di lavoro, e meno male, ma che dedica ampio spazio al tema della famglia. E di famiglia si interessano anche due commedie d’autunno: Maschi contro femmine, di Fausto Brizzi, e La donna della mia vita, di Luca Lucini, uscite qualche mese prima che La bellezza del somaro, film tutto sulla famiglia, di Sergio Castellitto, chiudesse l’anno in concomitanza della "Sagra del cinepanettone", con la corsa dei sacchi (pieni d’oro) vinta, quest’anno, dalla Banda di Aldo, Giovanni e Giacomo, travestiti per l’occasione da Babbi Natale, per la delusione della cricca scollacciata e sporcacciona capitanata da Aurelio De Laurentiis. Che ha deciso di svernare in Sud Africa, e forse non ha fatto bene. Oppure gli ha detto male solo perchè quest’anno i giorni festivi sono stati meno rispetto agli altri anni, Natale di Sabato, il primo gennaio di domenica, ed è in quei giorni di negozi chiusi e di abbuffate che si forma il pubblico del cinepanettone.

Ma torniamo alla famiglia, e a quelle pellicole appena citate, tutte destinate al grande pubblico. Perché, scusate l’insistenza, tanta famiglia all’improvviso? Ma soprattutto, in che modo si è parlato di famiglia in questi film?

Partiamo con Rubini, e il suo gradevole L’uomo nero, rimasto in sala per tutto l’inizio del 2010. Autobiografico, con spruzzate felliniane e dedicato a un tema eterno come quello del padre. Il regista è tornato su un’Italia che non c’è più, altra tendenza del cinema italiano contemporaneo, diciamo dai tempi de La meglio gioventù in poi. E se va bene costruire col cinema la memoria storica, quando arriva puntale la maniera non sai più se dare ad un determinato evento un valore positivo o negativo.

Rubini ha dipinto un Sud arcaico degli anni ’ 60, di sole, architetture affascinanti e pietre antiche. Una Puglia vivace e bellissima, ma vacanziera, attimo di fuga per lo spettatore, che con Rubini si diverte e si emoziona, ma che con lui rinuncia ad indagare il proprio quotidiano. Film da promuovere per qualità, ma da bocciare nell’indagine dei rapporti umani e sociali contemporanei. E’ un film sulla libertà, sul coraggio di rompere con l’immobilismo culturale portatore di sofferenza e frustrazione. E’ un film sul potere della fantasia e della creatività, che vale anche tra cento anni, anzi, tra cento anni varrà più di oggi, perchè di oggi Rubini non ci parla in questo film.

E passiamo a Verdone, che ha girato un film divertente, saldando gag di grana grossa, da film comico, a qualche utile discorso sull’oggi. Il buon Carlo sussurra che l’individualismo e il narcisismo regnano dovunque, ormai, e per ciò anche tra i tramezzi e i lavandini, tra i cassetti ed il citofono. Verdone fa il suo cinema, ci fa ridere perchè è simpatico, e perchè è venuto su con pane, talento e buoni sentimenti. Stavolta, addirittura, libero dalle pressioni delaurentisiane, ha ribadito che la nostra società è fatta di gente che non si sa ascoltare. Che non ha nessuna voglia di aiutare qualcun’altro, perchè il proprio dramma sembra enorme, anche quando non lo è, e il proprio tempo per risolverlo sembra sempre troppo poco. Come dargli torto? Soprattutto considerando che si chiama Verdone, e che bisogna essergli grati già parecchio per le mille risate che ci ha consentito da trent’anni ad oggi, e che incaricare lui di sbatterci in faccia i problemi principali della nostra società è quantomeno ingiusto? Il suo film è semplicissimo e non emozionante, leggero eppure sincero, molto relativamente autoriale, ma a modo suo parlante.

C’è stato poi Virzì, l’unico capace di fare la commedia all’italiana. Che di presente ci ha parlato varie volte, già dai tempi di La bella vita, quando raccontava la fabbrica e la disoccupazione. Per non dire di Tutta la vita davanti, il più deciso nella scelta di affrontare chiaramente un tema sociale fortissimo: il lavoro contemporaneo. Ma con La prima cosa bella, facendo commuovere quattro quinti di paese, ha deciso di rannicchiarsi sul mondo degli affetti primari, ed ha puntato dritto al cuore dei rapporti umani: il legame con la mamma. La prima cosa bella, appunto, come dice la canzone.

Ma Pure Virzì è tornato agli anni ’70, e di quegli anni non ci ha detto molto, se non riproponendoci colori ed indumenti. Il suo calorosissimo e coinvolgente film è tutto chiuso dentro i personaggi, e come loro non riesce ad antrare in rapporto con il proprio tempo. La prima cosa bella ricorda ancora una volta quanto la famiglia condizioni il nostro vivere, e ce lo fa capire in maniera straordinaria, ma è un ragionamento generale, o comunque legato ad un’Italia di quarant’anni fa, che poco c’entra con quella attuale. Come prendere questo salto virziano nel tempo? Parentesi di mezza età necessaria a fare i conti autoriali, una volta per tutte col proprio passato? Sempre che nel film ci sia qualcosa di autobiografico? Oppure ripasso di come era provinciale e bigotto il nostro paese nei primi anni ’70?

Prendiamo Muccino, e facciamoci altre domande. Il regista afferma, con Baciami ancora, che a un certo punto della vita, oggi, o ti accontenti di amare le persone che ti sono vicine, donne e figli se ce li hai, oppure t’attacchi al tram e vaghi per tutta la vita con una sbronza disperata addosso. Può darsi che abbia ragione, ma il suo problema è che la parabola implicita alla fine del film non è sostenuta da un’analisi efficace, e i suoi ragazzi inquieti, ormai omoni fatti, non hanno molto di paradigmatico e sembrano i protagonisti di un documentario sugli amici di Muccino, e su Muccino stesso. La sincerità e la buona fede sembrano esserci, ma al regista romano/americano manca la capacità di raccontare, di colpire nel segno.

C’è poi Veronesi, il più appassionato di botteghino del gruppo. Prende il presente e lo sfrutta, limitandosi ad elencare i fatti, tenendosi ben alla larga da qualsiasi indagine concreta. Le sue conclusioni che "la famija è sacra", come diceva un personaggio del mitico Compagni di scuola, sono affrettate e non poggiano su un racconto minimamente efficace e dignitoso. Il merito migliore del suo pessimo istant-movie è quello di stare sul pezzo, il limite peggiore è quello di non aver sfruttato minimamente l’occasione. Sciatteria, superficialità, saccheggio, ricerca della gag e nulla più. Incapacità autoriale? Certo, se non fosse che in passato Veronesi ha girato un paio di filmetti carini e interessanti. Furberia, piuttosto, convinzione che un pubblico maleducato vada trattato per quello che è, e che se l’Italia va così, e se il televisionismo impera, allora al cinema basta copiarne la lezione. Anzi, a fare le cose con criterio ci si rimette e basta, e se la gente è abituata male, perchè rischiare offrendole qualcosa di buono?

Arriviamo ad Ozpetek, Mine Vaganti, per cui vale il discorso su Rubini. Sud esotico, famiglia alla Pietro Germi, parabola sensuale e divertente, sì, ma più confusa nel suo messaggio senza tempo rispetto al film di Rubini. Ozpetek è bravo a creare atmosfere e personaggi, ma la sua riflessione manca di chiarezza e precisione, e qualche dubbio sul suo film rimane.

Meglio Salvatores, per fortuna al di sopra del suo recente Come dio comanda. Happy family è gradevole e originale. Il suo messaggio è: la leggerezza salva, se basata sulla consapevolezza, sul placido ragionamento, sull’amore per se stessi e per i propri sogni.

Happy family è assolutamente in buona fede, è un modo sconosciuto di fare la commedia, un film leggero ma non evanescente, un film atipico sul presente e aperto verso il futuro, senza moralismi nè didascalie. Un film fatto di sano ottimismo.

Qualche parola, poi, sul film di Luchetti, La nostra vita. Spazio scenico molto interessante: la città che si allarga, alba di un paesaggio senza alberi, che con gli anni diventerà storia della città. Senza cupole e senza storia, sospeso tra luogo e non luogo. Cemento improvviso, strade dissestate, di polvere o fango, cantieri come funghi. Qualche giacca elegante di pelle e tanti calzoni macchiati di calce. Transenne, gru, colori della pelle diversi, accenti stranieri sotto un italiano arrangiato.

Ottima fotografia del presente, perché è agli estremi spaziali dell’urbe che meglio si colgono i cambiamenti più recenti dell’organizzazione sociale ed anche lo stato di una cultura.

In questo senso film riuscito, con Germano che incarna efficacemente un italiano popolare e medio al tempo stesso. Proletario e piccolo borghese insieme, in quell’omologazione verso il basso, incosciente e spedita, che ormai caratterizza impiegati e muratori, parrucchieri e venditori di case, di automobili e di casalinghi. Poliziotti, uscieri, baristi, maestri di tennis, laureati in sociologia, idraulici, operai, fisioterapisti e operatori sociali.

Non che siamo tutti la stessa cosa, ma ci somigliamo tutti sempre di più, quando ci incontriamo nei centri commerciali, perché li si risparmia, o quando ci imbottiamo di tecnologia d’avanguardia, quando ci divertiamo ognuno con la propria squadra del cuore, quando ci arrabbiamo ognuno con la propria famiglia, più o meno croce e delizia, piombo e salvagente insieme, più o meno in piedi e più o meno a pezzi. Quando tutti facciamo i conti coi soldi contati che abbiamo, o con quelli che non abbiamo, quando ci guardiamo allo specchio o pensiamo in silenzio, nel buio del letto, al fatto che viviamo nella totale assenza di grandi speranze e grandi prospettive.

Nel film di Luchetti c’è l’Italia di oggi: famiglia e denaro, nient’altro che questo. La nostra vita gira che è un piacere, o un dispiacere, nel senso della drammaticità del tema affrontato. Spedito e liscio, nel traballare della macchina da presa, nel suo inseguire l’ansia, la paura e la corsa del povero protagonista. E intorno a lui è vivo e dinamico il mondo che vive ai margini della metropoli, italiani credibili, avvicinati sempre di più da pensieri e parole provenienti da lontano.

Poi succede qualcosa, Rulli e Petraglia si guardano in faccia e non se la sentono di andare fino in fondo. Meglio incanalare il film verso l’alleggerimento, del resto mica sono i Dardenne. E allora ecco la luce e un soffio d’aria fresca sopra la sofferenza. Ecco il quasi happy end e il baratro schivato di un soffio. Basta la lezione, forse, al povero Claudio, che i soldi potrebbero pure aiutare, ma contano anche altre cose, e soprattutto, i soldi vanno dove stanno i soldi, e gli schiavi del piccolo benessere si devono accontentare e fare i buoni, anche quando la moglie ti muore, e la tua vita va a picco nell’indifferenza generale. Di tutti, tranne che dei parenti, serpenti da un certo punto di vista, ma dall’altro gli unici a provare qualcosa per te. E a mettersi in gioco per la tua salvezza e la tua felicità.

Luchetti è l’anti Ozpeteck, che storcerà il naso, perchè nella famiglia classica non crede. O forse non lo storcerà, perché anche lui crede nella famiglia e negli affetti, solo che non crede nei legami di sangue.


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