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CINEMA SARDO: CENNI STORICI...

Pubblicato il 5 marzo 2007 da Edoardo Zaccagnini


CINEMA SARDO: CENNI STORICI...

‘Scarni ed essenziali’. E’ questa la definizione più comune per i banditi di De Seta. Lo dice anche il Mereghetti: ‘Vittorio De Seta, coi suoi banditi scarni ed essenziali’. E pure magri, espressivi e taciturni, al punto che passa per vera la bugia che il film sia in lingua sarda. E invece no, perchè Banditi a Orgosolo è parlato in un italiano che non limita la sua potenza e il film rimane un’opera di grande importanza. La bellezza intrinseca ed il valore antropologico della sua materia contribuiscono a renderlo il capostipite ufficiale della Sardegna cinematografica esportata sul continente, nel mondo e nel cinema tout court. Lo ammettono, senza fatica, anche alcuni registi locali.
Siamo nel ‘61 e De Seta trasferisce parte della sua preparazione meridionalistica in questo splendido affresco silenzioso e tragico. Con questo film, che vince il premio per la miglior opera prima a Venezia, il regista (non sardo) parla di una terra chiusa dentro leggi e strutture culturali ed economiche, ignara del processo di trasformazione in atto altrove come sull’isola. Torneremo poi su questo punto, perché il rapporto tra Sardegna e cinema italiano nasce molto prima, con Cenere, del 1916, e poco dopo con un film di Gennaro Righelli, nello stesso anno in cui qualcuno marciava su Roma. Si chiama Cainà, questo film del ’22, e la sua pellicola, dispersa per anni, è stata ritrovata miracolosamente nella cineteca di Praga. L’opera possiede una sorprendente modernità stilistica ed è la storia di una donna volitiva e libera che ha voglia di fuggire da quelle regole ataviche che ritroveremo spesso in questo piccolo viaggio. Se il ’16 e il ‘22 ci spiegano un cinema sardo di origini remote, sono almeno altri tre i registi che vestono d’antico il rapporto tra il cinema e la meravigliosa regione isolana: Giorgio Pastina, Augusto Genina e Aldo Vergano. E prima ancora di loro quello di Aldo De Benedetti, con un film straordinario, muto all’alba del sonoro, un film a cui in questo speciale è dedicato un saggio di Sergio Naitza dal titolo La forza visiva del cinema muto (per ulteirori informazioni www.lagrazia.it).
De Benedetti, Vergano, Genina, Pastina: nomi di un mondo fa, di un’arte agli albori, di un cinema legato al regime, che dal fascismo esce senza problemi quando questo si frantuma cadendo. Potremmo chiamarla tetralogia, perché i quattro film sono tenuti insieme dal testo di partenza che in tutti i casi appartiene a Grazia Deledda. Ma non lo facciamo perché l’influenza della scrittrice sarda va ben oltre questi quattro esempi. Il primo, in ordine cronologico, è quello di De Benedetti: La Grazia, del 1934. Il secondo lo firma Pastina, col titolo Le vie del peccato. Siamo nel ’46 e la faccenda riguarda l’amore, la donna e le istituzioni: Ilaria è moglie di un lavoratore che uccide per odio e gelosia chi gli insidiava l’onore della sposa. Lo stato lo punisce a dodici anni, che egli sconta con la serenità di chi è certo di essere atteso con amore. Ma la donna, attenzione, si smarrisce, si travia e si fa adultera (appagata e appassionata). Morirà suicida quando il maschio l’abbandonerà, nello stesso giorno in cui il marito rivede luce e libertà. Il film di Vergano, invece, si intitola Amore rosso, Marianna Sirca ed è del 1952. Tratto, come detto, anche questo dal romanzo di Grazia Deledda, e film (troppo) carico di passione, racconta, ancora una volta, il dramma di una donna questa volta innamorata di un bandito. Il finale è d’amore, di sangue e di tragedia, perché il bandito di cui essa è innamorata è clandestino e in fuga dallo stato (altro tema forte del cinema sardo). L’opera è caratterizzata da un’interessante sobrietà nella descrizione ambientale e paesistica (importante anche quest’aspetto), ma affievolita da quella ricerca di effetti patetico-truculenti che caratterizza tutto il momento cinematografico nazionale.
Amore Rosso, non certo rosso perché inclinato a sinistra, culmina in un finale ad ecatombe, diverso dalla quieta malinconia che adombrava la chiusa del romanzo Deleddiano. Nè fa eccezione il terzo capitolo di questa sorta di trilogia sarda: L’edera, di Augusto Genina, 1950. Al centro della faccenda, per la terza volta, una fiera figura di donna. E accanto alle tinte forti di un melò con desiderio, passione, tradimento e senso di colpa, una Sardegna “culturale”: di calunnie che diventano verità ufficiali, di fughe sui monti, di rapporti complessi coi carabinieri, di figure di prete come tramite tra individui e società. Sarà curioso, più tardi, ritrovare questi stilemi nei film sardi, molto belli, degli ultimissimi anni.
Nel frattempo perfino Mario Monicelli, non ancora tra i padri della commedia italiana, mette il naso nel solco tracciato dalla prosa culturale della solita Deledda: il suo Proibito, del 1954, poggia con una certa libertà sulle faide, gli amori e i drammi di questa Sardegna, stavolta fotografata in abbagliante technicolor. E se Monicelli si avvicina all’Isola col rispetto per le sue ‘regole cinematografiche’, ci penserà qualcun’altro a segnare l’ingresso, mai privo di significati, della commedia nell’universo cinematografico di questa terra di mare stupendo e monti inospitali. Il primo esempio lo fornisce Mario Mattòli, il regista di Totò, con una pellicola comica dal titolo Vendetta Sarda, che è un simpatico (e poco antropologico) viaggio nella Sardegna delle faide e delle vendette. Siamo appena al 1951 e mancano quindici anni all’approdo della commedia all’italiana nei porti profumati di mirto. Il film è Una questione d’onore, lo firma Luigi Zampa e lo interpreta, accanto a Franco Fabrizi e Leopoldo Trieste, un superlativo Ugo Tognazzi. L’anno è il ’66 e l’importanza del reperto sta nella sua capacità di mettere in luce e a nudo certi aspetti della cultura di Sardegna, attraverso l’occhio esterno di un genere che può graffiare impunemente grazie alla sua maschera di leggerezza. La storia, deliziosa ed emblematica, ci costringe alla sinossi: paesino sardo, faida tra i Sanna e i Porcu. Don Sanna, per evitare l’aggressione del Porcu, induce Efisio, un uomo onesto, ad uccidere lo stesso Porcu in cambio dello scagionamento da un delitto non commesso. Attenzione, non commesso! Efisio penetra in paese in occasione della festa, (la festa è il momento in cui possono avvenire i delitti) ma anziché colpire decide di mollare e di far l’amore con sua moglie. Accade che Porcu venga ucciso lo stesso (da uno sconosciuto) e che la moglie del povero Efisio rimanga incinta. Egli è così costretto ad ammettere pubblicamente l’adulterio. Tenta, invano, di castigare sua moglie con violenti alterchi e feroci insulti ma non basta e non serve: disprezzato da tutti (persino dalla madre e dai cognati), incapace di rimediare all’ingiusto disonore, pazzo di dolore, dopo aver gridato agli impassibili compaesani la loro barbarie, Efisio colpisce a morte la moglie innocente. Ecco raccontata, insieme a sincere risate, anche una cultura. Ed ecco spiegata, per i cinefili del tardo pomeriggio, l’origine del personaggio di Efisio Mulas, ospite spesso alla trasmissione radiofonica di Radio 3, Hollywood party. Quello che duetta tra Magrelli e Sanguineti, tra Crespi, Ponzi e Della Casa, è un vivo omaggio a Zampa e Tognazzi.
Tornando alla Sardegna e ai suoi generi cinematografici, il filone deleddiano si rinnova e si rafforza con l’intevento della televisione: Canne al vento, grande sceneggiato della Rai del 1958, è un omaggio a Grazia Deledda premio Nobel. Fim diviso in due parti: quattro ore di spettacolo che raccontano il lento declino delle sorelle Pintor e la dedizione del servo Efix. Un bianco e nero d’epoca con Carlo D’Angelo, Cosetta Greco, Franco Interlenghi e la regia di Mario Landi. E Grazia Deledda accompagna per mano il cinema sardo, da quasi subito a quasi adesso: nel 1993 esce un film di Maria Teresa Camoglio, Con amore Fabia. Un film che filtra il romanzo ‘Cosima’, dell’autrice sarda, in chiave fortemente moderna E’ la storia di una ragazza e del suo bisogno di evadere dalla provincia. Il suo desiderio di seguire le strade dell’arte viene rallentato, ma non fermato, dai problemi familiari. Trionferà la voglia di fuga, di emancipazione e di libertà. Dalla traccia deleddiana nasce un film, semplice e sensibile, che parla di una Sardegna metafora di ogni provincia e di una cultura non più, o non sempre, capace di bloccare il cambiamento. Questo film, ce lo conferma anche Sergio Naitza, è molto importante nel ribaltamento della traccia deleddiana.
E cosa dire del filone banditesco? Torniamo un passo indietro, agli anni sessanta. Ancora Naitza ci parla del cinema continentale come inviato speciale in Sardegna per documentare la realtà dei sequestri. Qualche film importante sulla fine degli anni sessanta: 1) I protagonisti, di Marcello Fondato,1968. Cinque turisti borghesi affascinati dal mito del bandito sardo. Un incontro col latitante alla ricerca di emozioni forti. La scampagnata che si trasforma in un dramma. Un modo insolito per raccontare, negli anni caldi del ’68, il banditismo in Sardegna.
2) Sequestro di persona, Gianfranco Mingozzi, 1969: il racconto tragico di un sequestro che diventa un ingranaggio della nuova industria del crimine: non più l’antica vendetta ma una organizzazione fondata su un potere economico. Un film inquietante, girato in Gallura, con Franco Nero e Charlotte Rampling.
3) Barbagia: La società del malessere, Carlo Lizzani, 1969: Graziano Cassitta, giovane pastore barbaricino, vendica la morte del fratello uccidendo uno dei suoi assassini. Arrestato, riesce ad evadere per ben tre volte: l’ultima delle quali dal carcere di Sassari con Miguel Tienza, ragazzo spagnolo con cui si rifugia sul Supramonte. Graziano e la sua banda attuano una serie di sequestri di persona. Mentre le forze dell’ordine gli danno inutilmente la caccia, Graziano, diventato nel frattempo popolare perchè giustifica i suoi crimini come atti di giustizia volti a riparare le secolari ingiustizie subite dai pastori, progetta di porsi alla testa di un movimento separatista. Spaventati dalle sue idee, alcuni complici lo spingono a un errore: il sequestro di Nino Bedetto, uomo tutt’altro che ricco, che suscita l’indignazione dell’isola. Nonostante la popolazione si unisca alle forze di polizia per catturarlo, Graziano, rimasto solo in seguito alla morte di Miguel, l’unico della banda che gli era rimasto amico, riesce ancora una volta a sottrarsi alla cattura. È un film chiaro e denso quello di Lizzani, che adotta il taglio avvincente dell’inchiesta giornalistica per raccontare la storia romanzata del celebre Graziano Mesina, bandito alla macchia, interpretato da un giovane Terence Hill: balente di un’Isola diventata società del malessere.
Questi tre film sono girati da registi non sardi: due romani ed uno Bolognese (Mingozzi). Eppure, in quegli stessi anni, su quello stesso terreno cinematografico, inizia a muoversi un regista sardo che è ancora in vita e in opera e che si chiama Piero Livi. Anche lui a cavallo del ’68 dirige un film sul banditismo. Lo intitola Pelle di bandito ed è lo sforzo, attraverso il mito di Graziano Mesina, di capire le radici di quella che è stata definita ‘società del malessere’. Il mito del bandito è riveduto e corretto da un sardo che si confronta, per la prima volta, col tema scottante del banditismo. Ne viene fuori un film teso, realista e onesto verso la realtà della Sardegna. Né col banditismo né con Grazia Deledda c’entra molto il fortissimo film che i Fratelli Paolo e Vittorio Taviani ambientano tra le pietre, le piante, gli animali e la cultura sarda: Padre Padrone è molto altro. Vince la Palma d’oro a Cannes nel ’77 e fa arrabbiare molto la Sardegna. La vicenda di Gavino, (Gavino Ledda) non è racchiudibile nel perimetro dell’Isola e neanche in quello, più vasto, della società contadina. Sul film c’è un approfondimento in questo speciale: Padre Padrone: in(oltre) la Sardegna. Lo stesso Gavino Ledda, nel 1984, scrive, interpreta e dirige un film: Ybris, premio ‘Cinema Nuovo’ miglior opera prima. Visionario, poetico, simbolico, selvaggio, film di sorprendente energia e sfrontatamente ambizioso. Il talento dello scrittore si rivela anche col cinema. Una operazione di linguaggio, di sperimentazione, primo esempio di film sardo autoctono. E con questo film arriviamo all’ultima generazione, quella per cui è stato deciso di approfondire lo sguardo sul cinema sardo.
Ci sono un gruppo di autori che hanno iniziato a realizzare film molto interessanti sulla loro regione, che poi solo regione non è. I nomi sono. Enrico Pau, Salavatore Mereu, Piero Sanna, Giovanni Columbu, Enrico Pitzianti, Gianfranco Cabiddu, Elio Grimaldi. Sono ancora giovani e il loro lavoro è appena iniziato. Dei loro film si parla nelle interviste a Sergio Naitza, in quella a Piero Sanna e in quella a Giovanni Columbu.

Un grazie a Sergio Naitza per la preziosa collaborazione

Febbraio 2007

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