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Torino 33 - Colpa di Comunismo

Pubblicato il 29 novembre 2015 da Anton Giulio Onofri


Torino 33 - Colpa di Comunismo

La conosce bene, Elisabetta Sgarbi, che è di Rho Ferrarese, la bassa padana nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni dell’anno: quelle luci fioche immortalate da Luigi Ghirri, quei non-luoghi spaziosi solcati da strade dritte in mezzo ai campi tra filari di pioppi e olmi, e costruzioni basse in mattoni di quel rosa che in inverno si spegne in un grigio indistinto, sfumato di nebbia per la buona metà delle ore del giorno.

È sullo sfondo di questo Polesine pastellato e umidiccio che ha scelto di muovere la sua macchina da presa e tallonare, con lo sguardo di un gatto curioso, come possono essere curiosi i gatti, cioè ostentando quell’indifferenza sorniona che ce li rende così affascinanti, misteriosi, tre donne rumene migrate nel nostro paese in cerca di quella fortuna sognata in nome di non si bene cosa dopo il crollo, a casa loro e in tutti i Paesi al di là di quella che un tempo veniva chiamata la Cortina di Ferro, dei regimi totalitari nell’orbita del comunismo sovietico. Hanno imparato l’italiano, chi meglio e chi poco, ma lo usano anche tra di loro come una koinè necessaria per fingere una maggiore integrazione con un luogo e una popolazione che le hanno accolte insieme alla loro gente, ma che in realtà le tengono a distanza, talvolta le studiano con diffidenza, il più delle volte le ignorano, senza mai realmente interessarsi alla marginalità delle loro vite tutte uguali, fatte di ansie e fatiche, di occupazioni umili e precarie, di impegni temporanei e sottopagati. È proprio l’indifferenza ostentata di chi, pur senza respingere fisicamente nessuno, impedisce di fatto una vera e fattiva interazione culturale e sociale di queste donne, ma anche dei loro uomini, del tutto simili ai “noi” degli anni del nostro poverissimo e disperato dopoguerra, quando rammendare una tovaglia poteva essere fonte sicura di un magro ma necessario guadagno.

Questa indifferenza, dicevo, è il bersaglio del cinema apparentemente non ideologico, non politico che Elisabetta Sgarbi ha adottato nel suo terzo lungometraggio di finzione per raccontare le vicende delle sue non-eroine e dei loro connazionali che affollano le strade, le case, le chiese e i campi del Polesine. Allo stesso modo, la sua macchina da presa sfiora, accarezza, passa accanto alle sue protagoniste – talvolta concentrandosi su dettagli che appaiono talmente casuali da risultare addirittura non necessari – con l’estraneità e l’impassibilità dello sguardo di un gatto, egoista e autoreferenziale come i locali “ospitanti”, sostanzialmente disinteressati a stabilire alcun legame o contatto di sorta con gli “stranieri”.

Quello che dunque sembra un cinema “documentario”, oggettivo e non impostato, allo scopo di non somigliare minimamente al cinema di finzione, è in realtà un sofisticato lavoro di mimetizzazione, che fingendo di sottrarsi all’empatia e alla narrazione partecipata delle storie dei suoi protagonisti, riesce ad insinuarsi nel “nostro” sguardo di testimoni distratti della tragedia dei migranti che da anni, insieme alla crisi economica, dividono con noi territori e destini comuni, mettendo a nudo con crudezza chirurgica tutta la nostra colpevole, ingiustificata e imperdonabile insensibilità.


CAST & CREDITS

(Colpa di Comunismo); Regia: Elisabetta Sgarbi; sceneggiatura: Eugenio Lio, Elisabetta Sgarbi; fotografia: Andrés Arce Maldonado, Elio Bisignani montaggio: Andrés Arce Maldonado, Elisabetta Sgarbi; musica: Franco Battiato; interpreti: Ana Turbatu, Elena Goran, Micaela Istrate; produzione: Betty Wrong, Rai Cinema; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia, 2015; durata: 86’


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