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Come seme sotto raffiche d’inverno [libro]

Pubblicato il 5 ottobre 2016 da Anton Giulio Onofri


Come seme sotto raffiche d'inverno [libro]

Viviamo in tempi di pace “relativa”, ovvero un’assenza di guerra là dove dal nostro punto di vista di occidentali culturalmente e socialmente liberi (secondo quanto affermò, sul finire dello scorso secolo, l’economista Francis Fukuyama nel celebre saggio The End of History and The Last Man) di conflitti bellici di proporzioni piccole, medie o grandi sentiamo solo parlare, ricevendone notizia dai media, che più o meno in diretta sono in grado di mostrarci stragi, bombardamenti, attentati ai danni delle popolazioni civili delle zone, delle regioni e dei paesi più complessi e meno fortunati del nostro pianeta. Quale effetto produce sul nostro immaginario la videoripresa amatoriale dei corpi straziati e riversi in terra dopo l’esplosione di un ordigno in un mercato o in un aeroporto, o le immagini girate con obbiettivi ipersensibili di un raid notturno sui tetti di una città mediorientale, o quelle catturate da un reporter particolarmente coraggioso che sia riuscito a fotografare madri o padri disperati che ostentano il corpicino dei propri figli fatti a pezzi da una mina, crivellati da una mitraglia, o estratti esanimi dalle macerie di una casa crollata sotto le bombe? Eppure vi fu un tempo nemmeno troppo lontano in cui la stessa angosciosa tragedia falcidiò vite umane e decimò intere comunità nelle vie e nelle piazze delle città e dei piccoli centri dove oggi più o meno serenamente spendiamo il tempo della nostra quotidianità, dove la Storia fu “un’ombra di passaggio”, la sagoma scura di un fantasma di distruzione e di morte. La citazione tra le virgolette è presa da Come seme sotto raffiche d’inverno di Alessandro Izzi, una raccolta di nove racconti pubblicata dalla Giovane Holden Edizioni, che sono altrettante testimonianze raccolte dal vivo, anche se mascherate e trasfigurate dall’invenzione letteraria, di episodi accaduti in un borgo marinaro affacciato sul Mar Tirreno a metà strada tra Roma e Napoli in cui è lecito riconoscere Gaeta, in quell’arco di tempo che va dall’8 settembre 1943 fino al 19 maggio del ’44, quando il complesso scenario che venne a verificarsi dopo l’armistizio di Cassibile e la resa agli anglo-americani trasformò gli italiani da alleati in nemici dell’esercito tedesco, spietato esecutore, di lì in avanti e per otto lunghi ed estenuanti mesi d’inferno, di una feroce rappresaglia contro la popolazione inerme, per vendicare quello che fu considerato “alto tradimento”, fino all’arrivo dei “liberatori”. Se la Storia con la maiuscola l’hanno scritta i vincitori, a Izzi non interessa giudicare o prendere posizione, come è stato fatto da più parti per tutta la seconda metà del secolo ventesimo, al fine di alimentare polemiche sterili e scaricare la responsabilità di eventi tanto complessi su questo o su quello; la guerra è per lui “un mestiere sporco”, che coinvolge chi in realtà spera soltanto di tornare a casa per riabbracciare la fidanzata e rivedere la propria madre, ed è estraneo agli interessi e ai giochi di chi ha il potere di inviarlo a combatterla. A Izzi sta a cuore il destino dei tanti ragazzini, costretti a crescere anzitempo rispetto a quanto previsto in natura, perché travolti da eventi di portata infinitamente più grande di loro; delle tante madri costrette tra spaventose difficoltà a tenere insieme con la loro sacrale centralità di angeli del focolare le redini di tutta la famiglia, dal più piccolino al più anziano; di quegli sfortunati che, quando non della vita, sono stati privati della dignità e dell’onore, condannati pertanto a non mai dimenticare qualcosa che è impossibile perdonare: quanto suonano terribili le parole di Don Fernando, brutalmente violentato da due soldati sotto la volta della sua stessa chiesa, che nel segreto del confessionale dice a un suo parrocchiano: “Perdonare non è dimenticare. Forse il sacrificio che ci viene chiesto oggi è proprio perdonare senza dimenticare, continuando a ricordare. Solo così il perdono è cosa viva, perché la rinnoviamo tutti i giorni, nello stesso spasimo della croce”. Avanzando nella lettura dei nove racconti, che in realtà potrebbero sembrare i capitoli di un unico romanzo il cui protagonista sia, coralmente, l’intera popolazione del borgo ridotto in macerie, ci si infila con tutti loro per i vicoli semidistrutti, ci si arrampica sulle colline del golfo, partecipando della loro medesima ansia di calpestare una mina, di correre a casa e non trovare più vivo nessuno dopo il passaggio delle truppe nemiche, di incontrare la morte nelle sembianze di uno sconosciuto che non avrebbe nessun motivo di odiarci se non l’ordine dei suoi superiori… E il senso di raccontare oggi eventi in tutto e per tutto simili a quanto non solo la nostra letteratura, ma anche il nostro cinema ha saputo vividamente illustrare nel lungo periodo altalenante tra il bianco e nero e il colore, non risiede soltanto nella necessità di recuperare un ricordo sbiadito dalle tante celebrazioni che sulle generazioni più giovani producono forse l’effetto di ottunderlo più che tenerlo acceso e vivo; ma anche, e forse soprattutto, di far scattare l’automatismo della comparazione con quanto si vede riportato in rete o dai notiziari della televisione, e riconoscere nei volti segnati dallo spavento dei bambini, nelle lacrime di una madre con il figlio morto sulle ginocchia, negli scheletri delle città rase al suolo, nella follia dei gesti insensati degli invasati pronti a morire in nome di un’idea spacciata per credo religioso che nega la vita invece di esaltarla nell’amore e nella pace, gli stessi personaggi che popolano le pagine di Izzi, trascinati poco più di mezzo secolo fa in un identico baratro di universale, insensata follia.

Nell’ultimo dei nove racconti, ambientato molti anni più tardi, e occasione di recuperare un ricordo rimasto fuori dagli altri otto perché ancora confuso e offuscato dalle nebbie dense di un passato non sempre decifrabile, la penna premurosa dell’autore raggiunge esiti di toccante tenerezza irrorata di una malinconia aurorale che coincide con l’ingresso nella maturità di un giovane aspirante scrittore in cui sembrerebbe adombrato lo stesso Izzi, che come un’ostia nel tabernacolo, o come un violino nella sua custodia, ripone nel mistero di un’insondata paura provata dall’amatissima nonna in una notte di temporale simile al terrore delle bombe in quei lontani e terribili anni di guerra, l’origine della propria urgenza di diventare scrittore, e poiché “scrivere, come scolpire, è più togliere che aggiungere”, arrivare a capire, tra i fatti della vita, di cosa non è mai possibile parlare.


Autore: Alessandro Izzi
Titolo: Come seme sotto raffiche d’inverno
Collana: Battitore Libero
Editore: Giovane Holden edizioni
Dati: 128 pp, brossura con alette
Anno: 2016
Prezzo: 14,00 €
Isbn: 978-88-6396-852-1
webinfo: Scheda libro su sito casa editrice


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