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Compleanni – Un mondo d’Argento, tra i frammenti di quel corpo insanguinato che è il cinema

Pubblicato il 10 settembre 2010 da Marco Di Cesare


Compleanni – Un mondo d'Argento, tra i frammenti di quel corpo insanguinato che è il cinema

Martedì 7 settembre 2010 Dario Argento ha compiuto 70 anni.
Sono trascorsi quaranta anni dal suo esordio con lo splendido L’uccello dalle piume di cristallo, uscito nelle sale nel febbraio del 1970.
Due date, queste, che divengono due anniversari – cui, in verità, bisognerebbe aggiungere anche il trentennale della scomparsa del geniale Maria Bava (morto il 27 aprile del 1980) - che dovrebbero essere considerati come un monito per l’intero cinema italiano, per la sua storia e per un modo di essere che è forse andato irrimediabilmente perduto, figlio degli anni Sessanta e Settanta (pur con le generali differenze tra le due decadi), per una delle più grandi stagioni che la cinematografia internazionale abbia mai conosciuto, con la penisola come uno dei suoi centri più luminosi.
È stato questo il canto del cigno di un cinema italiano che si apprestava a fare il proprio ingresso negli anni Ottanta, nell’epoca della crisi e di uno smarrimento legati a molteplici fattori: l’irrompere, verso la metà degli anni Settanta, di una televisione commerciale che si cibava di film (piccolo schermo che, in seguito, diventerà sempre più il referente privilegiato per un cinema alla ricerca di nuovi spazi, fino all’evoluzione verso l’home video), la conseguente perdita di pubblico e di incassi, l’invasione di opere straniere; non bisogna poi dimenticare anche il cambiamento del clima politico (soprattutto a sinistra), la fine di un mondo sociale e culturale con, in più – nello specifico del cinema - il naturale affievolirsi di tante di quelle voci che in precedenza avevano saputo ruggire con forza, una crisi anche di idee che, malgrado lodevoli eccezioni sempre più frequenti negli ultimi tempi, giunge fino a un’epoca segnata dalla scarsità di opere dal grande respiro estetico, linguistico e tematico.

E Argento, Autore al pari di altre grandi firme, è all’incirca coetaneo di Marco Bellocchio e di Bernardo Bertolucci: tutti e tre sono rappresentanti di quell’ultima generazione che ha fatto grande il nostro cinema. Il cineasta romano, oramai studiato e analizzato un po’ ovunque nel globo (da noi soprattutto a partire dagli anni Ottanta, con un certo colpevole ritardo dopo svariate incomprensioni), ha preso un intero genere cinematografico e lo ha fatto proprio (in Italia come Sergio Leone e Mario Bava), fin dall’inizio creando un mondo che col tempo ha assunto sempre più una sua forma propria. Un auteur a tutti gli effetti, quindi. Tuttavia per alcuni rimane un esempio alquanto atipico, avendo da sempre amato esprimersi attraverso la punta insanguinata di una mdp intinta nel giallo, nel thriller e nell’horror. Al contrario, però, proprio l’aver utilizzato un solo genere può acuire la sensazione di trovarsi di fronte a un corpus molto compatto di opere tra loro interdipendenti. Compreso il 1973 de Le cinque giornate, quando alcuni poveracci si diedero alla rivoluzione dei borghesi in una pellicola interessante e beffarda, del tutto riconducibile al mondo d’Argento, un film accolto male dal pubblico e da più parti tacciato di qualunquismo, capace però di denigrare un mito fondativo come il Risorgimento, utilizzando uno ’scandaloso’ registro basso in un’opera sulla violenza collettiva, affresco disegnato da un uomo di sinistra in un’Italia che sognava la Rivoluzione, in un’epoca ricca di film politici.
Perché l’Italia è una grande famiglia da prendere per il collo e da scuotere con energica forza. Come accaduto già tre anni prima, quando Argento aveva messo a segno il folgorante debutto de L’uccello dalle piume di cristallo, un thriller elegante e stilizzato, luminosamente oscuro e già inquietante che, col suo lento ma inesorabile successo ai botteghini (cosa che forse oggi non potrebbe più accadere, a causa di un mercato monopolistico e della scarsa tenitura di molti ’piccoli’ film) e la sua novità estetica, creerà un foltissimo numero di proseliti con il nome di animali nel titolo, fornendo gli stilemi del cosiddetto giallo all’italiana, un filone che andrà a esaurirsi presto a causa di uno sfruttamento esasperato da parte dei produttori, ma che tuttavia qualcosa lascerà. Quegli stilemi comunque lo stesso Argento li aveva presi a piene mani - rielaborandoli e appropriandosene - dal pioneristico lavoro di Mario Bava (un autore in Italia mal-visto da molti, dai critici come dal pubblico). Così due lavori di quest’ultimo (La ragazza che sapeva troppo del ’63 e Sei donne per l’assassino del ’64) rappresentano due incursioni del maestro ligure nel cinema di un terrore non gotico, spargendo inquietudine sulla vita di tutti i giorni (un po’ quello che farà Romero cinque anni dopo con La notte dei morti viventi, ispirandosi a Gli uccelli di Hitchcock): «Ma si guardi attorno un momento... Le sembra un posto dove si pugnalano le donne, questo? Venga, venga. Questa è Roma, con questo sole, con questa aria limpida: un sogno forse, mai un incubo», come dirà il Dott. Marcello Bassi interpretato da John Saxon (che tornerà a Roma nel 1982, stavolta per perdersi nelle Tenebre di Argento) a Nora Davis, ossia La ragazza che sapeva troppo.
Successivamente il regista romano porterà presto a compimento, nel 1971, la cosiddetta ’Trilogia degli animali’ (o ’zoofila’). A febbraio uscirà Il gatto a nove code, grazie al quale si espliciterà sempre più una poetica dello sguardo e della visione sadica, tramite le continue soggettive dell’assassino, inquadrature a volte possibili, altre volte no, che fanno coincidere l’assassino con l’occhio di un cinema che uccide, disorientando e facendo esaltare lo spettatore, che viene egli stesso spinto a identificarsi con l’assassino, lasciando affiorare una bestialità sepolta in entrambi (come si evince da alcune morti che, qui, divengono particolarmente cruente, con bava e lacrime che fuoriscono dalla bocca e dagli occhi, portando a galla un dolore fisico assai realistico).
Alcuni mesi dopo sarà la volta di 4 mosche di velluto grigio, il film andato perduto per vent’anni e solo ultimamente recuperato, importante perché vi si profilano sempre più gli elementi soprannaturali, con un linguaggio sempre meno naturalistico, ossequioso solamente di fronte all’autorità del suo autore-creatore.

Per ragioni commerciali lanciato come un giovane Hitchcoch italiano (così come accaduto anni prima a Bava), si può affermare come Argento sia sì figlio dell’inglese (in particolare quello di Psyco) e della sua estrema capacità di realizzare forme cinematografiche, ma anche di come egli sia una creatura sui generis - e degenere - che da sempre ha flirtato con Buñuel e il surrealismo (come lo stesso Hitchcock, con la sua attenzione verso l’occhio, il sesso e lo sguardo, oltre che le verità nascoste), con Mario Bava e la Hammer, con Sergio Leone, Antonioni e certi aspetti di Fellini (per taluni personaggi di contorno), senza ovviamente dimenticarsi di Fritz Lang, dell’Espressionismo tedesco e del noir americano (ovvero la crudeltà e l’ambiguità umane), oltre che della Nouvelle Vague.
Un ragazzo dalla profonda cultura cinematografica, Argento: entrato ventenne nel quotidiano romano ’Paese sera’, rifiutato dal Centro sperimentale di cinematografia, si farà le ossa come critico, vedendo moltissimi film e apprezzando in modo particolare il cinema allora considerato ’basso’ (ma anche il colto Antonioni e difendendo, tra l’altro, il giovane Bellocchio de I pugni in tasca). Divenuto in seguito sceneggiatore di vari b-movie, assieme a Bertolucci e a Leone parteciperà alla stesura del soggetto di C’era una volta il West. Grazie a Bertolucci potrà poi occuparsi dello script di L’uccello dalle piume di cristallo, che riuscirà infine a dirigere, convincendo i produttori nonostante la sua totale inesperienza dietro la mdp.
In poche parole una sorta di figura da Cahiers du cinéma, un iconoclasta che univa varie tipologie di cinema (anticipando molte correnti critiche di là a venire), ma che si occuperà di teoria cinematografica più che altro attraverso la mdp e che col cinema si divertirà (ma facendo sul serio), citando i suoi maestri come sempre più farà anche con se stesso, operando un eterno ritorno fin dentro i meandri di una memoria individuale (il dettaglio di un delitto sfuggito ai detective per caso, il proprio passato di autore) e collettiva (un certo tipo di cinema), portando in scena l’eccesso dei sensi in una tensione che punta verso un erotico, spasmodico e viscerale desiderio, divenendo esempio di una modernità dove l’uomo si trova di fronte a una realtà che non sa comprendere appieno, che deve vedere e rivedere, ascoltare e riascoltare, pure nella consapevolezza di come questa sia frammentaria, misteriosa e forse addirittura inconoscibile (Blow-Up e i surrealisti docent). Una condizione nella quale si è costretti a non avere sonno, come Betty (Cristina Marsillach) obbligata a non poter riposare, a tenere lo sguardo aperto sulla morte all’Opera, con gli aghi che non le consentono di abbassare le palpebre, per un film che esplicita in pieno quel rapporto sadomasochistico che è alla base del cinema di Argento e dell’intero giallo all’italiana, sintesi tra l’atto del torturare (le mani dell’assassino nel suo cinema sono quelle di Argento stesso, cameo alla Hitchcock e ulteriore presa di posizione sulla mdp e sull’istanza autoriale in quanto macchine di tortura esse stesse) e l’atteggiamento dello spettatore, anch’egli chiamato a far parte della modernità, passando volontariamente e, allo stesso tempo, lasciandosi trascinare di continuo tra lo stato di una fruizione più attiva e una maggiormente passiva, tra la conoscenza e la confusione, interrogando se stesso e lo schermo che lo illumina sull’ambiguità di senso del mondo che lo circonda, se non sulla sua incomprensibilità, diventando quindi anch’egli un corpo e una mente da martoriare, ribadendo il sadomasochismo del cinema di Argento in quanto visione dei due volti di ogni realtà messa in scena.

E, fino a Tenebre, varie pellicole argentiane si concludono in modi che raffigurano il perdurare di uno sguardo rimasto intrappolato nell’orrore dell’abisso (’Se guardi nell’abisso, l’abisso guarda in te’), senza una vera catarsi o liberazione, come oggi ribadito dalle magnifiche teste realizzate da Sergio Stivaletti per gli ultimi film del maestro (gli occhi delle quali, le cui bocche, sono porte spalancate sul buio), come l’antonioniano David Hemmings che si specchia nel Profondo rosso di una pozza di sangue, interrogandosi sul senso di quanto è accaduto e sull’inafferrabilità dell’esistenza, sulla follia che tutto ha pervaso, per una realtà cinematografica che squarcia lo schermo e fuoriesce al di fuori dei suoi confini. Uno squarcio che attraversa la superficie del cinema come accade nell’omicidio di Tilde in Tenebre, quando l’assassino lacera la maglietta del pigiama bianco della ragazza con un rasoio (quindi mentre questa si sta preparando per andare a dormire e, forse, sognare), scoprendole il volto e facendolo spalancare sull’orrore, un viso incorniciato dal colore di un tessuto che sembra quello di uno schermo cinematografico. Un gesto che ricorda quello operato dal rasoio impugnato da Luis Buñuel che tagliava l’occhio di una donna nel prologo di Un chien andalou, esplicitando così la personale presa di posizione in favore della poetica di una visionarietà che incidesse lo sguardo dello spettatore - fino ad allora ancora innocente - con l’intento di realizzare immagini nuove al fine di rinnovare le menti.
In Argento, però, vi è un’ansia dell’omicidio che rappresenta il desiderio del possesso, quell’atto di annientamento che fa da pendant con la moltiplicazione e l’eccesso che incarnano la cifra stilistica di gran parte della sua filmografia. In questo senso, citando sempre Luis il grande, si può parlare dell’Estasi di un delitto (desiderio che, però, in Buñuel rimarrà sempre ironicamente disatteso, col fine di rappresentare in particolare l’incapacità della borghesia di controllare la propria esistenza e di portare a compimento i propri obbiettivi, nella rappresentazione di una impotenza anche e soprattutto sessuale). E, sempre riferendosi a quello splendido film messicano del regista spagnolo, non si può non rammentare l’importanza del carillon come rituale del (non) omicidio, che Argento riutilizzerà in Profondo rosso e che accompagnerà e sosterrà anche Suspiria e Tenebre (quest’ultima sì una esplicita messa in scena di un’impotenza che genera mostri), legandolo al mondo di un’infanzia e di una giovinezza violate e Traumatizzate, che torneranno fatte a pezzi dal passato, mediante dettagli e feticci (come le bambole), in un macabro rituale.
E, trattando di infanzia violata, non si può non pensare a M - Il mostro di Düsseldorf, il primo film sonoro di Fritz Lang. E, come questo esempio di cinema del regista austriaco, in Argento vi sono dei leitmotive che, al pari delle sue soggettive, annunciano la presenza dell’assassino. La sfera sonora, poi, per il regista romano sarà sempre fondamentale, fin dal suo esordio. Nella trilogia degli animali verrà aiutato da Ennio Morricone (una delle ’eredità’ di Sergio Leone), il quale, soprattutto in L’uccello dalle piume di cristallo, sperimenterà molto. In particolare - per quanto riguarda l’effetto finale sulla pellicola - si pensi alla musica extradiegetica nella seconda sequenza del film, posta su una serie di soggettive (impossibili) dell’assassino che inquadra la sua prima vittima attraverso l’occhio di una macchina fotografica, con una voce che intona una nenia e che – probabilmente - solo alla fine si comprenderà essere una chiave per risolvere il mistero. Voci, sospiri, che torneranno nella sequenza dell’omicidio nell’ascensore. In questo modo si avrà già quella moltiplicazione sensoriale, quell’affabulazione del tutto audiovisiva, di cinema puro, che diventerà sempre più preponderante per Argento, come dimostrerà in modo particolare il sodalizio con i Goblin, nelle loro varie incarnazioni autori di score meravigliose (da Profondo rosso a Suspiria a Tenebre, fino alla collaborazione tra i soli Simonetti e Pignatelli per alcuni brani di Phenomena, terminando con Claudio Simonetti per Opera). Soprattutto con loro Argento riuscirà a rendere la musica una vera coprotagonista, ponendola sullo stesso piano dell’immagine, anzi spesso quasi sopravanzandola grazie a un violento e selvaggio eccesso (un po’ come Bernard Herrmann quando rappresenta l’ingresso in scena della Morte in Psyco), portando finalmente allo scoperto una struttura filmica più vicina a una di stampo prettamente poetico, piuttosto che tradizionalmente narrativo, come si intuisce già dalle prime prove del regista (si considerino i continui flashback di Sam Dalmas in L’uccello dalle piume di cristallo, frammenti di ricordo restituiti come se fossero sogni più o meno aderenti a una realtà vissuta).
E così - per quanto riguarda la sfera sonora in generale - assume una fondamentale importanza l’intervento del fuori campo assoluto, dell’extradiegetico che comunica col diegetico, in un processo di continua osmosi e di arricchimento reciproco che conduce fino a uno straordinario e visionario disorientamento sensoriale. In proposito si pensi all’assassino che chiama la ’coniglietta’ Dora in Nonhosonno (fatto ’realisticamente’ impossibile, visto che lei si trova su di un tram con altre persone ed è inquadrata dall’esterno), adorabile estremizzazione della presenza del Male che aleggia ovunque (pur rimanendo incarnato in un corpo e senza mai giungere all’assoluta astrattezza della figura di Michael Myers nell’Halloween carpenteriano). E il Male si diffonde attraverso internet ne Il cartaio, film che pone l’accento sul barare (ossia una delle presunte pecche che vari critici e spettatori più o meno ostili imputano ad Argento) e sul ritorno a una sorta di virginea purezza (come in un autoremake de L’uccello dalle piume di cristallo, realizzato tre anni dopo Nonhosonno, ossia un altro autoremake, questa volta di Profondo rosso e Tenebre), dove quasi tutti gli omicidi non possono essere visti (forse anche in un racconto morale sulla freddezza del comunicare nell’epoca dei computer, freddezza tra le persone che diventerà una delle cause scatenanti della follia dell’assassino).

«È inutile che tenti di spiegarti: non mi crederesti. Tutto sembra così fantastico e così assurdo»: sono queste le parole che in una delle prime scene di Suspiria il personaggio della ragazza fuggitiva, Patty Newman (Eva Axén), rivolge all’amica Sonia (Susanna Javicoli). Parole che rappresentano una dichiarazione di intenti per Argento, divenendo un problema di estetica inerente al vedere e al sentire il corpo del cinema, letteralmente inciso, martoriato e attraversato dalla mdp, una vera e propria caméra-stylo che disegna labirinti sensoriali, descrivendo un mondo interiore che prende forma sullo schermo.
Una carattere, questo, tutto interno all’arte, in una moltiplicazione dell’effetto cinematografico che si alimenta grazie alle architetture di esterni cittadini che divengono esse stesse protagoniste delle vicende (come accadeva già in Antonioni) e rammentando inoltre scenografie di tipo teatrale - teatro che da sempre è stato al centro dell’attenzione anche di Hitchcock - che portano con loro un’impressione di ’irrealtà’ e la sensazione di stare assistendo a una performance, come nel caso del tentato omicidio in L’uccello dalle piume di cristallo, che si svolge proprio in una galleria d’arte. Perché, come affermerà Ulisse Moretti (Max von Sydow) in Nonhosonno, «Omicidi come questo non sono casuali, sono premeditati, sono una specie di messa in scena: gli piace fare del male e vuole che la gente lo sappia». Vivere in un’opera d’arte quindi, come in una rappresentazione di teatro lirico. E tutto questo, perciò, concorre a realizzare un’esplosione dei sensi che lascerà molte vittime dietro di sé, in un accumulo di morti di stampo leoniano o, ancora, baviano (ma con molta meno ironia rispetto ai due).
E proprio l’arte può scatenare traumi sepolti nell’inconscio, oppure, al contrario, divenire la soluzione di un enigma, in ogni caso rimanendo sempre centrale e incarnando l’elemento del perturbante, come il quadro in L’uccello dalle piume di cristallo o il falso dipinto in Profondo rosso; in quest’ultimo caso, inoltre, si aggiunge lo specchio, altro elemento ricorrente in Argento, in quanto superficie su cui lo sguardo (si) riflette. Non bisognerebbe poi dimenticarsi del fantastico espediente di quelle 4 mosche di velluto grigio che sono rimaste impresse su di una retina, nell’esaltazione dei poteri dell’occhio come macchina che sa fermare il tempo in un’istantanea, in quell’attimo che precede il tempo infinito della morte. Si consideri infine il più tradizionale rapporto con la letteratura, alla continua osmosi tra arte e vita - tra lo spirare e l’ispirare - come accade a Sam Dalmas o al Peter Neal di Tenebre.
Perché comunque il cinema di Argento è fondato sull’attraversamento di confini, sul collage - inserito in una continuità - che tocca forma e contenuto. Si guardi all’utilizzo di vari registri nello stesso film, tecnica compositiva dell’alternanza presente in modo particolare nella prima Trilogia, in cui una grottesca comicità e un pungente sarcasmo divengono spesso assai gustosi, in un gioco - non poco moderno - dell’equilibrio nello squilibrio, dove, però, più che ridere si sorride, lasciandosi disegnare come un ghigno al posto della bocca. Si pensi al personaggio di Diomede (Bud Spencer) in 4 mosche, soprannominato ’Dio’, il quale, in effetti, almeno nel finale si comporterà come un vero e proprio ’Deus ex machina’, riconquistando una forza che inizialmente non sembrava appartenergli (un dio che non può nulla contro l’inquinamento delle acque e che vive in una baracca con un pappagallo che si chiama ’Affanculo’, divenendo così bersaglio di una bestemmia) e, forse, dimostrando di saper ancora essere ovunque.
Tuttavia quella del collage in Argento è una caratteristica presente persino in vari set presi dal vero, calpestati da personaggi che si muovono all’interno di un mosaico composto di frammenti provenienti da città diverse, tra loro combinate per creare luoghi non comuni.
E un attraversamento è quello che capita al volto di Helga Ulmann (Macha Méril) che, in Profondo rosso, verrà spinto fino a frantumare una finestra, supplizio che attenderà pure la Patty di Suspiria o, ancora, Vera Brandt (Fiore Argento) e Gisela Sulzer (Fiorenza Tessari, altra figlia d’arte) in Phenomena, fino alla Sara (Eleonora Giorgi) di Inferno che - con tutto il corpo però - lacererà uno schermo (s)velato come ultimo atto della sua esistenza, prima di trapassare definitivamente. Ed è, ancora, l’annegamento di Anna Manni fin dentro delle opere figurative laddove, in La sindrome di Stendhal, la ragazza passa dalla vita all’arte alla vita, ossia compiendo un viaggio tra realtà e fantasia, in un movimento che richiama quello che realizzerà tra le due parti della propria martoriata psiche, fino a divenire insieme vittima e carnefice. Una figura di giovane donna perduta che in sé incarna gli stilemi della presenza femminile nel giallo e nell’horror italiani (basti pensare ad Asa e Katia, strega e vergine sosia l’una dell’altra, interpretate da Barbara Steele nel gotico La maschera del demonio di Mario Bava), risultando, almeno fino ad ora, l’ultimo personaggio femminile argentiano degno di nota (con un’ambiguità, seppur più scontata e strettamente fisica e animalesca, che ritroveremo giusto in Jenifer - Istinto assassino), per un regista che da sempre ha posto la figura della donna al centro del suo universo filmico, prestando particolare attenzione a una delle raffigurazioni di quella ’diversità’ che è alla base di tutta la sua poetica. Un inno alla diversità che probabilmente trova il suo apice in Phenomena, incursione d’autore nel sottogenere dello slasher movie, ultimo capolavoro di Argento - anche se occorre sottolineare l’importanza del meraviglioso e assai più recente Pelts, realizzato per un medium in forte espansione quale è oggi la televisione (americana), nel quale si portano alla ribalta persone spinte verso la bestialità dalla loro bramosia di possesso - e uno dei pochi grandi film del cinema italiano anni Ottanta, una delle opere più deliranti di un regista che qui esplicita ancor più la massima perversione, la necrofilia (ossia il massimo desiderio di possesso), assieme a brandelli e a resti di corpi che vengono lasciati andare in putrefazione, feticistici trofei in un film che è una macabra fiaba disneyana dai colori horror (come l’immenso Suspiria), una pellicola di un lirismo onirico nel quale si incontrano l’emarginazione, la solitudine e l’assenza di amore, la follia, la mostruosità e l’handicap fisico, gli animali, la natura e l’acqua, il disagio dell’adolescenza e quell’istituzione traballante che è la famiglia.
Perché in Argento è la Famiglia che genera mostri, con le colpe delle madri e dei padri pronte a ricadere sui figli (con, in più, le streghe di Suspiria che incarnano il sadismo di quel nucleo allargato che è la scuola), per un Passato che torna sempre, riaffiorando dalla memoria, in un concetto di ereditarietà che giunge fino alla prova del DNA de Il gatto a nove code, ossia la colpevolezza senza colpe, estremo esempio di quel teatro del dolore che è il cinema di Dario Argento.


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