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Conferenza stampa “Anche libero va bene”- Kim Rossi Stuart: Roma, Cinema Adriano, 02/05/06

Pubblicato il 5 maggio 2006 da Flavia Innocenti


Conferenza stampa “Anche libero va bene”- Kim Rossi Stuart: Roma, Cinema Adriano, 02/05/06

Come mai ha scelto il tema dell’infanzia per il suo primo film?

Non lo so perché: non c’è un vero motivo, può anche essere che volendo fare le cose in un certo ordine, essendo io un bambino dal punto di vista registico, abbia sentito la necessità di raccontare la storia di un bambino vero.
Insieme ai miei co-sceneggiatori c’era la voglia di tornare a guardare il mondo con gli occhi dell’infanzia... del resto è un periodo così importante e fondante della nostra vita che credo che non vada mai perso di vista.

Qual è il senso del film?

Non credo di aver fatto un film con una tesi, per cui non c’è un senso preciso. Si può raccontare questa storia da molti punti di vista: la potrei definire una storia d’amore tra padre e figlio, la storia di due uomini innamorati della stessa donna, non saprei...
Comunque se per forza dobbiamo ricavarci una tesi, forse è quella che gli adulti rischiano di commettere errori molto più grandi e gravi di quanto non facciano i cosiddetti piccoli.

Come hai recuperato questa capacità che i piccoli hanno di vedere il mondo complicato dei grandi con una limpidezza e purezza che deriva dalla loro stessa purezza?

È la storia che ci ha comandato. Innanzi tutto abbiamo messo a fuoco che tipo di bambino volevamo raccontare. Non volevamo parlare di un’infanzia particolarmente agiata e spensierata. In seguito, abbiamo costruito due genitori che rendessero complicata tale infanzia, cercando di non cadere in stereotipi, di non fare un film con buoni e cattivi.
La lucidità del bambino è venuta fuori dallo stesso lavorare insieme, non era così programmata. La sceneggiatura dal punto di vista strutturale era ben delineata, ma per i dialoghi e i movimenti è stata data ampia libertà agli attori.

Come hai fatto a trovare questo straordinario interprete, Alessandro Morace?

Ho cercato questo bambino con delle caratteristiche ben precise, ma comunque ero pronto ad affidargli una buona percentuale di comando del personaggio. L’ho trovato dopo una lunga ricerca in una scuola di Ponte Lanciani.

Pensa che noi genitori trattiamo impropriamente i bambini come adulti e quindi gli facciamo male in questo senso?

Sono contento se i genitori che abbiamo costruito risultano attuali, ma ci tengo a dire che ho sempre cercato di amare e seguire questi due genitori: di conseguenza ho cercato di andare in profondità nel descrivere le loro personalità problematiche, che a parer mio non si possono definire negative tout court. Per esempio, la madre dei bambini, che è il motore della storia, non si può definirla una donna superficiale, una casalinga annoiata. Io l’ho sempre pensata più complicata, una donna con delle nevrosi profonde, che quando sprofonda nel suo baratro non può far altro che scappare da se stessa e da questo amore sincero che ha per i figli.
Renato è più lineare è più decifrabile nelle sue fragilità, nei suoi meccanismi (molto comuni) di proiezione del proprio modello sul figlio.
Non mi sento di dire che questa è un’infanzia infelice: sicuramente è un’infanzia dura, complicata, una presa di responsabilità e autonomia precoce, ma non è un modello educativo totalmente negativo.

Lavorare con dei bambini sul grande schermo è sempre molto difficile, l’esperienza de Le chiavi di casa di Gianni Amelio, le è servita?

Sì, mi è servito molto, anche se quella è stata un’esperienza diversa per le caratteristiche di Andrea Rossi. Il set era stato costruito intorno a lui e la stessa sceneggiatura veniva modificata a seconda di ciò che succedeva sul set.
Qui il modo di lavorare è stato diverso, Alessandro era in grado di memorizzare intere scene, anche se nessuno dei bambini presenti nel film ha dovuto mai leggere un copione, gli si è spiegato di volta in volta il percorso della scena.

Quanto è stato importante per te parlare di una figura paterna inadeguata? E come avete lavorato per eliminare cliché, stereotipi nei quali sarebbe stato facile incappare?

Con questo film ho cercato di volare alto. Mi sono posto degli obiettivi anche ambiziosi: tra questi c’era l’intenzione di fare un film originale, genuino, sincero, che non si appoggiasse ad altri film. Di conseguenza si è cercato di costruire dei personaggi veri.

Nel film c’è una bestemmia, ti sei posto il problema anche per un pubblico di ragazzi?

No, perché fa parte del percorso di Renato: non è una bestemmia provocatoria, la trovo una bestemmia profondamente cristiana. Renato perde il controllo, perde la fiducia in se stesso, nella vita e fiducia è sinonimo di fede. È stato naturale, è un grido di dolore ed è funzionale al momento in cui il bambino torna dal padre con una manifestazione d’affetto che gli restituirà fiducia.

Ha già fatto un bilancio della sua esperienza da regista? Trova più congeniale esprimersi davanti o dietro la macchina da presa?

Per fortuna non devo fare una scelta: è positivo avere una vita varia. Il lavoro d’attore implica una mimesi, il regista, al contrario, al di là del tema trattato può parlare di se stesso: ha più possibilità di mettersi a nudo. E’ questo l’aspetto che più mi interessa del lavoro registico.

Com’è stato lavorare con il personaggio così sgradevole della madre interpretato dalla Bobulova?

Non sono d’accordo sul fatto che il personaggio sia difficile da accettare, durante la realizzazione del film ho cercato di comprendere più che giudicare.
Barbara è stata perfetta per la sua capacità di concentrazione.

Come mai ha scelto per le musiche la Banda Osiris?

Inizialmente ho pensato a un film senza musiche. Poi, quando ho maturato l’idea della musica, ho pensato a qualcosa che andasse un po’ in contrapposizione con l’andamento drammatico del film, quindi delle musiche che raccontassero anche gli effetti ludici dell’infanzia, quasi circensi e la Banda Osiris mi sembrava l’ideale in questo senso.


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