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CONVERSAZIONE CON FRANCESCO MUNZI

Pubblicato il 12 settembre 2005 da Giovanna Quercia


CONVERSAZIONE CON FRANCESCO MUNZI

Abbiamo incontrato il regista di Saimir, film che si è fatto notare tra le produzioni italiane di questa stagione per aver raccontato con stile, unità di sguardo, partecipazione ragionata, il personaggio non facile di un giovane albanese clandestino in bilico tra malavita e desiderio di integrazione, fra infanzia età adulta. Francesco Munzi ha 35 anni, è romano ed è al primo lungometraggio. Si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia e prima di Saimir ha fatto vari cortometraggi e documentari.

Qual è il “movente” fondamentale del tuo film? Volevo mettere in scena un romanzo di formazione, la storia di un adolescente che per trovare la sua identità è costretto a uccidere simbolicamente il padre. Al fondo c’è un problema archetipico, universale.

Dopo tanti film che usano gli immigrati come espediente per raccontare l’Italia, il tuo è un film che rende protagoniste queste persone e quindi ci aiuta a comprendere i loro sentimenti, a umanizzarli. Penso che l’importanza del tuo film sia proprio in questa rinuncia all’”approccio indiretto” e nella scelta di tagliare completamente fuori gli italiani è molto radicale. Ti ha creato qualche problema? Sono sempre stato molto deciso nel farlo ma anche angosciato. Sulla carta a volte mi sembrava un film assurdo. In fondo era un film italiano con tutti protagonisti non italiani che parlano la loro lingua madre. Mi chiedevo quale sarebbe stato il grado di verità che sarei riuscito a raggiungere... però mi sembrava giusto per una volta evitare l’espediente narrativo, secondo me abusato, di mettere in scena un italiano che incontra il diverso. É un approccio che finisce per dare al film un taglio quasi sociologico, conosciamo una realtà marginale ma lo sguardo resta quello privilegiato e a volte un po’ narciso dell’italiano. Per una volta ho voluto rovesciare la prospettiva, vedere gli italiani sfocati sullo sfondo e mettere in primo piano gli immigrati. Farli parlare con la loro lingua, guardare il mondo con i loro occhi. Con tutti i rischi che questa scelta comportava.

Sei soddisfatto del risultato? La cosa che adesso mi piace di più del mio film è l’iperrealismo. Non mi piace tutto, ci sono dei problemi di sceneggiatura ... Però, penso che la messinscena mi sia venuta bene. Ho trovato l’angolazione giusta delle inquadrature, la giusta distanza. Questo anche perché non ci sono personaggi italiani e quindi non c’è stato nemmeno il problema dei dialoghi... che ho costruito giorno per giorno con loro. Naturalmente tutte le scene erano scritte però molti dialoghi sono improvvisati. Sul set provavamo, poi, quando sentivo che c’era una verità allora cominciavo a girare.

Ho l’impressione che Saimir abbia spalancato una finestra, nel senso di mostrare fino a dentro le case, fino ai letti una realtà solo parzialmente esplorata dai documentari, dalla tv, dai giornali... La cosa bella è che così gli italiani si sono immedesimati molto più che attraverso un personaggio italiano perché è chiaro che per molti aspetti loro sono come noi... una volta a Passo Scuro ho passato il Natale a con una famiglia clandestina di rumeni e lì mi sono reso conto che le dinamiche familiari sono le stesse: c’è il ragazzo che è geloso della matrigna, ci sono i coniugi costretti a dividersi che si rifanno una famiglia all’estero... e allora per i figli scattano gli stessi problemi che conosciamo per i figli di genitori divorziati. Ci sono sofferenze di tipo privato, sentimentale. Ecco, aldilà del tema sociale, affrontare questi problemi mi sembrava più interessante che trattare l’immigrato come fenomeno sociologico. Più si scende nel privato più si toccano sentimenti universali. Infatti la scena che mi preoccupava di più era la violenza sulla ragazza che invece è un fatto eclatante, da cronaca nera e quindi ad alto rischio di stereotipo: ormai le prostitute dell’est stanno anche nella fiction tv... ero terrorizzato da quel punto della sceneggiatura perché avevo paura di cadere nella solita scena della ragazza e del pappone. Per questa storia mi sono ispirato a una storia che ho sentito entrando in contatto con un’associazione che si occupa di prostituzione... si chiama Casa dei diritti sociali e aiuta le prostitute a denunciare gli sfruttatori. Attraverso di loro ho conosciuto la storia di questa ragazza approdata ad Ardea con il suo ragazzo. Ebbene, appena arrivata è stata presa, portata in questa casa sul mare dove la aspettavano 4-5 questi amici del fantomatico ragazzo e, di notte, d’inverno, con un freddo cane, l’hanno buttata in acqua. Quando lei riusciva la ributtavano in acqua. Questo è accaduto per 60-70 volte per 5 ore di seguito. Lei è andata sotto shock e dopo solo 3 o 4 giorni stava sul marciapiede. Una violenza bestiale, non ha parlato per tre mesi. Questa storia mi aveva colpito, volevo farla così poi era febbraio e faceva troppo freddo...

L’impressione di autenticità del film fa pensare ad un lavoro sul campo, ad un contatto approfondito con gli immigrati. Ad esempio il conflitto generazionale tra il padre rassegnato al suo destino malavitoso e il figlio insofferente si rifà ad una dinamica diffusa fra prima e seconda generazione di immigrati? In effetti, prima di questo film avevo lavorato a lungo nei campi rom del litorale laziale per dei documentari. E quando cercavo l’attore per Saimir mi è capitato di frequentare i campi degli immigrati clandestini a Ladispoli dove facevo i provini ai ragazzi di quell’età (poi l’attore l’ho trovato in Albania perché i clandestini avrebbero avuto serie difficoltà burocratiche a lavorare nel film). L’esperienza mi ha insegnato che la prima generazione di immigrati, i padri, le madri aspirano ad un benessere primario, ad un decoro minimo e hanno scarso interesse all’integrazione, anzi c’è una forte chiusura verso gli italiani, c’è diffidenza, paura anche perché è pieno di caporali (il lavoro che fa il padre di Saimir). Diciamo che per loro trovare un lavoro, una casa, è già tanto. I ragazzi dell’età di Saimir, invece, vivono un’altra dimensione perché vanno a scuola che è per loro una fonte infinita di vergogna e di paure.

Da dove nasce la vergogna? Dal fatto, ad esempio, che quando devono invitare il compagno a casa ci stanno 15 persone che ci dormono. Anche loro si vestono come MTV ma tutto quello che respirano nelle famiglie di origine è di segno opposto per cui l’integrazione, finché ci sarà questa differenza sostanziale, sarà solo una bella parola. Anche perché i ragazzini italiani che incontrano a scuola non è che si pongono il problema teorico della tolleranza: contano più le piccole cose. Quindi mi sembrava giusto raccontare Saimir non tanto come una persona piena di valori etici quanto come uno che più che altro ha un enorme desiderio di sfondare questo muro, di entrare veramente in Italia anche se geograficamente già ci sta. Lo scontro generazionale sta proprio in questo: il padre si è fermato, ha ottenuto quasi tutto, invece Saimir sta proprio all’inizio, sente un disagio personale, esistenziale di cui nemmeno lui conosce l’origine ma che durante tutto il film cerca di risolvere.

Sei riuscito a raggiungere spettatori che potenzialmente potrebbero sentirsi rappresentati? E ti sei posto il problema che il tuo film avrebbe potuto confermare il pregiudizio che vuole gli albanesi tutti delinquenti? In fondo quella di Saimir è una storia che fa eccezione... Purtroppo non sono riuscito ad andare in Albania ma lì il film è uscito. So che il primo giorno 700 persone sono rimaste fuori dalla sala. Mi hanno detto che è stato anche apprezzato, io avevo paura di un linciaggio invece non è accaduto. Mi ha fatto piacere che molti albanesi abbiano detto che sembrava quasi fatto da un regista albanese. In generale mi sembra che nessuno l’abbia presa male, tranne le istituzioni - le ambasciate, i consoli, il sindaco - perché c’è una grandissima coscienza sporca. Per il resto credo che tutto dipenda da come racconti una storia, non tanto dalla storia in se’. Nel mio film ci sono tutte le fasce di albanesi: c’è lo sfruttatore, c’è il padre di Saimir che fa un lavoro illegale ma che tutto sommato è anche un povero cristo, e poi c’è Saimir che rappresenta un personaggio positivo. È come quando si raccontavano i fatti di mafia in Italia: nessuno poi ne rimaneva offeso, anzi... Comunque l’intento del film non era raccontare il popolo albanese ma un ragazzino che entra in un gioco di malavita più grande di lui.

Parliamo del finale, in cui Saimir denuncia il suo clan al completo, padre compreso: è motivato da tutto lo svolgimento del film eppure sembra arrivare improvviso, lascia l’impressione che si tratti di un gesto spropositato, che sia sfuggito qualche passaggio psicologico. È un effetto ricercato? Ho cercato di costruire il personaggio come una persona implosa. Per buona parte del film è abbastanza passivo, sta zitto, tace, come se covasse qualcosa che alla fine produce un’esplosione immediata. Un po’ come succede alle persone che non parlano mai: trattengono, trattengono e alla fine, quando trovano la forza per uscire fuori, lo fanno in maniera esagerata e irrazionale. Non so se sono riuscito a dare questo effetto, però l’intenzione era questa. Il gancio della giovane prostituta maltrattata è più una goccia che non il vero motivo. Può sembrare un gesto eroico, giusto, ponderato ma è fondamentalmente un gesto folle e anche un po’ autolesionista. Non possiamo sapere come sarà il suo futuro...

Tu come lo hai immaginato? Io chiaramente lo immagino migliore ma non sono così stronzo da poterla presentare come una certezza. Ha denunciato il padre, gli aguzzini... Aver tagliato i legami familiari significa che probabilmente finirà in un istituto e si sa quanto sia difficile per i ragazzi traumatizzati ricostruirsi una vita normale. In secondo luogo c’è il problema delle probabili ritorsioni da parte dell’organizzazione.. sicuramente in questi casi vieni messo sotto un programma di protezione. Insomma, quello che lo aspetta potrebbe anche essere un viaggio orrendo.

Alla conferenza stampa hai detto che senza questo finale questo film non l’avresti fatto... Il finale era per me l’idea del film. Mi piaceva l’accelerazione tragica, la forma edipica che prendeva questa storia che è quella di un individuo che per nascere è costretto a recidere i legami più forti, quelli affettivi. Era questa la vera anima del film. In fase di sceneggiatura è cambiato quasi tutto, non questo finale.

Molti critici a proposito del tuo film hanno parlato di Pasolini, Rossellini, Truffaut... a me personalmente la storia di Saimir ha ricordato Taxi driver. C’è un protagonista introverso, che matura una visione sempre più pessimistica del mondo in cui vive, che fa un passo falso nei confronti della ragazza desiderata riconsegnasi così ad un destino di emarginazione e che infine, di fronte ad un atto di violenza verso una giovane prostituta compie la sua vendetta solitaria. Te ne sei reso conto? Quando a Venezia Mario Sesti mi fece notare questa somiglianza io sono andato a rivedere Taxi driver e rivedendo un paio di scene mi sono detto: cazzo, sono identiche! In particolare c’è l’episodio della scenata di Travis alla donna nel seggio elettorale che è uguale a quella di Saimir nella scuola... Alcune cose succedono incoscientemente, si amano talmente tanto dei film che si sedimentano e poi riescono fuori. Anche la struttura narrativa, ad accumulo, è molto simile ma questo accade perché gli archetipi delle strutture narrative sono pochi. Comunque, se sono riuscito a citare Scorsese senza fare una cazzata sono felice!

Il successo critico e non solo di questo film ti da’ nuova linfa, nuova energia? Chiaramente sono molto contento perché è stato durissimo farlo e quindi spero di poterne fare un altro e soprattutto di poterlo fare con i tempi giusti, perché la macchina cinema ti può stritolare, anche per la tempistica. Non penso di specializzarmi in immigrati ma voglio continuare a fare un cinema che ha bisogno un po’ del documento, un cinema-finestra sul mondo. Questo significa tempo per sviluppare la sceneggiatura e tempo vuol dire soldi, mezzi. Inoltre è chiaro che fare film senza attori conosciuti è molto difficile....

Magari il tuo prossimo film sarà un po’ meno difficile... Un po’ meno difficile però sempre difficile. Penso di riuscirlo a fare ma il punto critico sono sempre i soldi. Questo film, infatti, anche se è andato bene, anche se è stato molto apprezzato dalla critica, farlo uscire è stato un dramma...

In effetti Saimir è stato presentato a Venezia l’anno scorso. Come mai è uscito così tardi? Il film è uscito tardi perché quasi tutte le distribuzioni italiane, pur apprezzandolo moltissimo, l’hanno rifiutato dopo che il governo ha tagliato i fondi per la distribuzione. Ora, in un sistema in cui o sei assistito o non esci (tutti i film italiani sono assistiti, non solo gli esordi ma anche gli Amelio, gli Olmi...), il taglio è stato paralizzante. Nessuna casa di distribuzione, neanche quelle che avevano amato il film sinceramente, se la sono sentita di distribuirlo con i soldi propri. Poi, visto il successo critico a Venezia e a Berlino, non far uscire il film stava diventando un mezzo scandalo per cui sono stati stanziati dei soldi in più. Mi spiego più concretamente: un film italiano, un articolo 8, prima dell’ultima legge, aveva più o meno 250.000 euro per la promozione, il lancio, la stampa delle copie, etc. Questi 250.000, dopo i tagli di quest’anno, sono diventati per i film italiani come il mio 40.000, cioè un sesto. Con 40.000 euro non hai nemmeno i soldi per fare le copie necessarie, figuriamoci quelli per i manifesti, il lancio... così abbiamo deciso di aspettare. L’attesa si è rivelata positiva nel senso che il governo ha portato il fondo per Saimir a 80.000 euro, l’Istituto Luce ha deciso di contribuire con 60.000 euro e così sono uscito con 140.000 euro. La promozione è fondamentale perché un film è anche una merce: se non hai i soldi per i manifesti la gente non sa che esiste il film, gli incassi sono bassi, le sale lo smontano. Siete rientrati delle spese? Per trovare un’opera prima o articolo 8 che è rientrato delle spese bisogna risalire a Ecce bombo, 1978. Tutti gli altri sono in perdita. Il problema è anche che gli esercenti prendono una percentuale altissima sugli incassi, al produttore resta pochissimo. Comunque Saimir è uscito un mese fa, sta resistendo ancora nelle città e questo per me è già un miracolo.

Al Ring ci sono stati una serie di incontri sui problemi del cinema italiano. Hai seguito? Cosa ne pensi? Penso che il problema grave della distribuzione è che adesso alcuni film italiani inseguono la tecnica americana del “golpe” nelle sale, che consiste nell’uscire con un numero di copie tale che non c’è più spazio per altri film. Ad esempio adesso Marco Tullio Giordana è uscito con 200 e rotte copie...L’obiettivo, aldilà della qualità del film, è rastrellare subito quanti più soldi possibile. Questo è letale per gli altri film, soprattutto nelle piccole città, perché quando gli schermi sono tre la scelta sarà sempre tra un blockbuster americano, un altro blockbuster americano e magari il filmone italiano. È chiaro che un film come il mio non troverà lo spazio, la sala. E questa è una prepotenza del denaro perché chi può permettersi di uscire con 200 copie? Ad esempio quando si dice che un film è il primo negli incassi è una balla perché è ovvio che se ci sono 250 sale che lo proiettano contemporaneamente gli incassi sono alti. Ma questo non è molto significativo perché se vai a vedere la media-copia, cioè quanto incassa ogni sala su quel film, vedi che le cifre sono diverse. Ci sono dei film piccoli che in proporzione guadagnano molto di più. Se questi film uscissero in più sale e, soprattutto, sorretti dalla promozione - perché il pubblico deve sapere che un film è uscito! - sono convinto che potrebbero raggiungere tranquillamente un pubblico popolare. Anche i cosiddetti film d’autore, se sono di narrazione vera, possono interessare chiunque, non solo il cinefilo.

Si è parlato molto anche della legge sul cinema... Io credo che si debba arrivare ad una riforma sostanziale. La legge sul cinema anche rispetto al cinema americano è bloccata al piano Marshall del 1953. A livello economico per molti versi siamo ancora sudditi degli Stati Uniti, non abbiamo nessuna forma di protezionismo, e chiaramente loro vincono perché hanno molti più soldi. E naturalmente quella americana non è soltanto una strategia economica ma un’operazione sull’immaginario che è una cosa violenta... io credo che di questo uno stato dovrebbe preoccuparsi. Lo stato, come la scuola, come la tv pubblica dovrebbe avere il compito di far passare le cose migliori, e non di favorire le peggiori solo perché c’è l’auditel o un riscontro immediato che poi, se vai ad analizzarlo, è figlio di un depauperamento culturale enorme... Insomma i buoni film, che siano italiani o meno, secondo me andrebbero aiutati.

Sei riuscito a vendere il film all’estero? Sì, il film è stato acquistato dalla tv tedesca, svedese, da quelle dell’europa dell’est, in Francia siamo in trattative... la televisione italiana è l’unica che non l’ha comprato.

Ultimamente, anche se con grande fatica, emerge una tendenza del cinema italiano a scovare storie ai margini, a raccontare realtà che non trovano spazio in televisione (penso a Marra, a Patierno, a molti giovani documentaristi). Hai l’impressione di procedere in maniera solitaria solo o ti senti parte di un movimento? Io sono contentissimo di molti registi della mia generazione, sono stati per me una boccata d’aria fresca... non lo dico per piaggeria, secondo me ci ha massacrato più la generazione di mezzo... Mi piacciono moltissimo Marra, Vicari, Mereu, Sorrentino, Garrone, i film di Patierno e di Costanzo mi sono piaciuti. Secondo me questo è il cinema italiano. Poi si spera che ognuno di noi faccia bei secondi o terzi film. Però veniamo ancora trattati come un fenomeno un po’ di elite... secondo me, invece, questi film rappresentano il nostro paese molto meglio di molte opere di registi che sono molto più in auge e molto più sostenuti.

Ci sono contatti fra di voi? Sì, ci conosciamo quasi tutti, ci vediamo. A ripensarci, con Garrone, Mereu e qualcun altro ci eravamo già adocchiati dai cortometraggi, un mondo che purtroppo nessun produttore frequenta ... Se io fossi un produttore andrei a vedere i festival dei cortometraggi: già lì si vede se un regista c’è o non c’è. Naturalmente fa eccezione Arcopinto che è un grande.

Quanto tempo hai impiegato per girare Saimir, hai avuto la possibilità di girare in sequenza? La cosa essenziale per un film è prepararlo bene. Io mi stupisco infatti quando sento di registi che girano un film all’anno o addirittura due... e non c’è équipe che tenga, il lavoro del regista è un molto solitario, sul set soltanto te sai l’inquadratura che hai fatto prima, quella che ci sarà dopo, quindi l’unico modo per salvarsi è conoscere il più possibile la materia, essere sicuro della storia, conoscere gli attori per poter prevedere i loro tempi... e sono cose che puoi scoprire solo con una lunga preparazione. Per Saimir i finanziamenti sono arrivati dopo due anni e quindi ho avuto tutto il tempo per prepararmi... nel prossimo film sarò io ad impormelo. Ho avuto 9 settimane di ripresa che ho fatto il diavolo a quattro per ottenere perché un’altra brutta cosa del cinema italiano è la velocità e l’approssimazione. Si prende a pretesto la mancanza di mezzi per girare in maniera frettolosa. Che poi vuol dire cambiare il linguaggio del film, perché quando una scena l’hai pensata con 10 inquadrature e per problemi di tempo la devi girare in 3, finisci per diventare “televisivo”. Ma la bravura del regista consiste anche nel rompere le scatole al produttore su questo.

In questo film c’è una notevole unità di linguaggio, di fotografia, di atmosfera Io ho avuto una troupe favolosa perché erano tutti affascinati dal progetto poi. Per molti è stata un’esperienza anche esistenziale, soprattutto per il contatto con gli attori albanesi, che poi non erano attori. Ci siamo trasferiti tutti al mare, abbiamo girato fra Ostia, Torvajanica, Ardea, Ladispoli. Il direttore della fotografia, Radovic di Sarajevo, è stato straordinario perché ha preso il film non come un mestiere ma come una passione... ho sentito di avere dei grandi alleati e questo mi ha aiutato moltissimo.

Sia il tuo film che quelli di Giordana e Vicari toccano l’argomento dell’immigrazione. Come lo spieghi? Io penso che tutte le cinematografie vitali tocchino in qualche modo la storia del loro paese ed è indubitabile che l’immigrazione sia un fatto epocale, un fenomeno che si sente nell’aria e non soltanto come fatto sociale. Ognuno di noi ormai ha un’esperienza personale di contatto con gli immigrati: dalla baby sitter alla colf all’operaio che ti lavora in casa... è qualcosa che ti gira intorno e che racconta moltissimo del nostro paese, di quest’epoca, di questo divario fra il nord e il sud del mondo, di questo sud poverissimo che preme... a me è dispiaciuto moltissimo che il fenomeno del g8, questo movimentismo che c’è stato ad un certo punto, e che ha prodotto un momento bellissimo, sia scemato in maniera così brutta...

C’è stato l’11 settembre, penso sia per questo... Lo so ma l’11 settembre ci parlava proprio di questo...bisogna rimanere svegli con le coscienze, almeno noi finché abbiamo una certa età per non rimanere inglobati nel cinismo, nel sarcasmo. Con questo non voglio dire che bisogna fare film realistici per forza, però ogni film, anche se racconta di Marte deve rimandare a qualcosa di pulsante del presente.

Secondo te con il cinema può incidere sulla realtà? Personalmente, quando vedo un film di evasione totale, se sono angosciato o triste non mi distraggo per niente. Quando esco sono ancora più angosciato perché è come se quel film mi avesse drogato 2 ore per poi lasciarmi come prima. I buoni film invece arricchiscono chi li guarda e quindi sono importantissimi perché possono influire sulla crescita individuale di una persona a livello umano, politico... I film restano dei film, ma possono aiutare qualche coscienza.


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