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David

Pubblicato il 30 ottobre 2011 da Alessandro Izzi

VOTO:

David

Duad è il figlio di un himam di New York.
Di fisico minuto e dal carattere un po’ chiuso, ma non scontroso, il piccolo si vive la sua identità “a margine” come la condanna per una colpa che non conosce bene.
L’estate, Duad, se la passa, infatti, tutta in moschea ad aiutare i più piccoli ad imparare le orazioni e, nel frattempo, si appresta a seguire le orme del padre come guida spirituale della sua comunità. Il suo sguardo, però, mette in discussione tutto col suo desiderio inespresso e muto. Vorrebbe giocare a basket, ma i ragazzi neri lo apostrofano chiamandolo Osama e lo tengono fuori dal perimetro di gioco. Vorrebbe avere amici, ma si trova ad essere solo il fratello più grande di tutti i bambini della moschea mentre i coetanei si sono già allontanati dalla tradizione miscelandosi con la realtà multietnica che li circonda.
Poi un giorno Duad, per caso, vede un ragazzo ebreo dimenticare la Torah su una panchina e, nel tentativo di riportare il libro al legittimo proprietario finisce per entrare in una scuola estiva ebraica e per essere scambiato per un piccolo ebreo in cerca di istruzione.

Parlare di identità all’indomani dell’11 settembre non è cosa facile. Come non è facile accostarsi a realtà complesse come le tradizioni ebraica e musulmana nelle loro dimensioni più ortodosse cercando, al tempo stesso, di non pestare i piedi a nessuno. Joel Fendelman sceglie la strada dell’episodio esemplificativo, della storia semplice e lineare, della novella che ti potrebbe stare in poche pagine e che si deve condensare in appena qualche tratto di penna. Non il grande affresco, insomma, ma la descrizione minuta, ad altezza di personaggio, fitta di soggetti e predicati e con pochissimi aggettivi a far da zavorra all’azione. Così la macchina da presa di Fendelman non svolazza mai intorno ai suoi ragazzi, ma li tiene perennemente in campo, al centro dello sguardo: misure perfette di una distanza ideale tra autore e storia raccontata.
E in questo equilibrio precario si misura una simpatia dolce per ogni personaggio, una carezza timida per ogni piccola storia che non ha bisogno di cattivi d’operetta per farsi grande. Così il padre di Duad, rigido nell’applicazione della dottrina, è anche troppo giovane per essere quell’himam fondamentalista che certa televisione ha lasciato in eredità al nostro bisogno di pregiudizi. Quando la figlia più grande gli chiede di partire per la California dove ha ottenuto una borsa di studio, il genitore dapprima recalcitra, poi cede per paura che il troppo rigore sfasci la famiglia in una realtà, come quella americana, in cui i figli vanno via di casa il prima possibile in cerca di se stessi. E quando Duad torna nella scuola ebraica, dopo essere stato scoperto e scacciato dagli amici, per restituire il libro, motore primo dell’intreccio, si ritrova di fronte un direttore anziano e per niente cattivo che lo tratta con la benevolenza che si riserva ad un bambino e non con la sufficienza destinata ad un potenziale nemico.

Il cuore poetico del racconto sta tutto nella difficoltà a conservare la propria tradizione in un mondo che marginalizza tutto ciò che non si omologa. Per questo il momento più toccante sta fuori pagina, nella nota a margine, quando Duad, insieme con il nuovo amico Yoav, intervista un’anziana zia di quest’ultimo e lei rievoca il momento della sua massima vergogna, ricordando di quella volta che disse “Grazie” all’amica che le aveva detto che non sembrava affatto ebrea.
Sembrare ed essere si scontrano nel gioco delle convenzioni sociali. In fin dei conti chi è il vero Duad? Il bambino taciturno che guarda di lontano i coetanei giocare e nel frattempo legge il Corano? O il David allegro che si sente parte di qualcosa e nelle vita impara a buttarcisi con fame d’affetti e di esperienze? E dall’altro lato che è anche Yoav? Il diligente ragazzo ebreo che studia, ma sogna di essere un giocatore di baseball? O quello che guarda le foto dell’estate scorsa con la nostalgia di un’amicizia che è tanto difficile ritrovare?
Il film non risponde a domande impossibili. Semmai le pone con la sensibilità di chi non vuol gettare aceto nella ferita aperta, ma sa che a toccarla un poco brucerà. Così ti gioca di suggestioni come nella scena in cui Duad, per diventare David, si nasconde come Superman in un portone a togliersi di dosso i vestiti di Cark Kent. E a chi ancora si chiede come sia possibile che il mondo intero non riconosca in Superman il timido giornalista del Daily Planet visto che s’è solo tolto dalla faccia gli occhiali, gli si può rispondere che basta anche meno per passare da ebreo a musulmano e viceversa. Perché in fondo ci vuole lo sguardo d’un adulto per capire l’importanza vitale e magica di una tradizione millenaria, ma solo un bambino può indicare il punto dove cominciare a costruire ponti.


CAST & CREDITS

(David); Regia: Joel Fendelman; sceneggiatura: Joel Fendelman, Patrick Daly; fotografia: Robbie Renfrow; montaggio: Joel Fendelman; musica: Gil Talmi; interpreti: Maz Jobrani, Muat asem Mishal, Binyomin Shtaynberger, Dina Shihabi, Gamze Ceylon, Michael Golden; produzione: David the Movie LLC; origine: USA, 2011; durata: 80’


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