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(De)gradazioni della figura paterna nelle opere di Clint Eastwood

Pubblicato il 19 febbraio 2007 da Marco Di Cesare


(De)gradazioni della figura paterna nelle opere di Clint Eastwood

La filmografia del regista Clint Eastwood ha abbracciato gli ultimi decenni attraverso opere che hanno (ri)toccato i generi fondanti della cinematografia e della cultura americana (come un Figlio che rilegge l’opera tramandata dai Padri Howard Hawks, John Ford e John Wayne), per mezzo di tematiche che ricorrono lungo la sua intera carriera: in particolare, quella della paternità ha assunto una centralità sempre più preponderante col trascorrere degli anni e con il raggiungimento di una maturità d’uomo e d’artista. Di pari passo con questo percorso è andata rafforzandosi una ridiscussione della morale della società americana, con un atteggiamento sempre più intimista e un’attenzione alle dinamiche delle relazioni umane, che ha toccato sia i toni beffardi, che il pathos più elevato. E proprio la figura del Padre è stata sempre più analizzata, mettendone di volta in volta in evidenza le sue diverse sfaccettature e sottolineando le sue (de)gradazioni.

Negli anni ’70, decennio della sua giovinezza d’autore, Eastwood ha affrontato questo argomento solo di striscio, in senso lato: sotto questo punto di vista si può pensare a Breezy, il suo terzo film, uscito nello stesso anno, il 1973, del suo fondamentale western Lo straniero senza nome (questo già un anarchico attacco al vivere falsamente onesto della classe media americana e dell’intera nazione), come a una storia d’amore non solo intergenerazionale tra un maturo William Holden, esponente del ceto medio, e una ribelle hippy adolescente, ma anche a una pacificazione, almeno momentanea, del conflitto genitori-figli (specialmente quello riguardante i Padri, visto che proprio la figura maschile venne maggiormente esautorata del suo potere costituzionale da parte dei venti ribellistici della Controcultura).

Passerà poco più di un lustro e, a intervalli brevi e regolari, Eastwood ci mostrerà figure di uomini che sempre più perderanno il loro ruolo di guida all’interno della famiglia e della società, in una nazione così giovane da non avere bisogno di antenati, ma solo di una continua necessità di padri fondatori: naturali, putativi, o anche spirituali, ma sofferenti di continue crisi di decentramento sociale, basi non più solide per un’America già marcia.

Risale al 1980 Bronco Billy, uno dei film più importanti di Eastwood, e uno di quelli da lui più amati, poiché mette in scena la sua poetica, e la sua ‘ideologia cinematografica’: un circo di spostati, cow-boys e indiani, un protagonista che è padre putativo per tutti i membri del suo ensemble, classicità contro ‘progresso’, perdenti che potranno vincere almeno una volta, perché si sono guadagnati un’altra occasione (come non pensare alla Maggie di Million Dollar Baby, ‘aiutata’ a sognare dal pigmalione Clint, anche se questi col tempo è diventato stanco e malinconico?).
In particolare Bronco è padre per un ragazzo, Leonard Jones, cui il ‘vero’ genitore non ha mai dato nulla, al di là della sua cinghia: e il figlio, come per dimostrare a se stesso, attraverso un beffardo contrappasso, di aver imparato qualcosa da quell’insegnamento, diventerà un asso nell’esibirsi col lazo. Billy per lui si sacrificherà, accettando di essere pesantemente dileggiato da uno sceriffo, purché questi non denunci Leonard alle autorità, in quanto disertore: anche se Billy non ha gradito il comportamento del ragazzo, considerandolo come un atto di codardia, l’empatia nei confronti di un figlio supererà qualsiasi barriera ideologica.
Così come l’attrazione/repulsione di Billy verso Antoinette Lilly (Sondra Locke), ricca ereditiera, viziata, ma onesta e di gran carattere, diventa sempre più amore quando scopre che lei ha perso il padre da bambina.

In Honkytonk Man, del 1982, Eastwood porta con sé in scena addirittura il figlio Kyle: Clint interpreta Red Stovall, un musicista country negli anni della Depressione, beone irresponsabile che deve affidarsi alle cure di un ragazzino, il nipote Whit, per poter raggiungere Nashville, dove deve partecipare a un festival. Ma zio Red saprà essere un insegnante di vita per il giovane e, quando morirà, continuerà a vivere in Whit: come in una versione edulcorata di Un mondo perfetto.

Il terzo western di Eastwood, Il cavaliere pallido (1985), porta all’estremo la tematica dello straniero senza nome tornato dall’Oltretomba per metterci di fronte ai nostri demoni nascosti e alle nostre colpe, Fantasma che, in quanto tale, è un nostro Padre lontano. Ma il Pale Rider è un predicatore, e quindi anche un Padre spirituale per una comunità di oneste persone ormai allo sbando, vessate dai malvagi di turno. E come un angelo fa ‘innamorare’ di sé una madre con la figlia, rimaste orfane del loro padre e marito. Ma come un angelo se ne andrà, una volta adempiuto il suo dovere e la sua vendetta, lasciando le due donne a un altro, più adatto a una relazione borghese.

«Signora Parker, lei vuole un musicista o un marito…?». Chissà se la domanda rivolta dal primario della clinica psichiatrica in cui venne ricoverato Charlie Parker, in arte Bird, rivolta a una donna piena d’amore, ma anche di sconforto, voleva sottintendere ‘lei vuole anche un padre per i suoi figli?’.
Bird è un uomo disperato, preda della droga e dell’alcool – oltre che della musica – depresso per tutti questi motivi assieme e, soprattutto, a causa della morte della sua bambina, scomparsa mentre era lontano, in tournée sulla West Coast e fra le braccia di una delle sue tante amanti. Artista di genio e uomo debole, padre pieno di premure ma inadatto, eterno figlio che vorrebbe sempre una ‘moglie bambina’.
E dure, ma paterne, sono le parole dell’amico Dizzy Gillespie: «I bianchi ci sguazzano se il negro dimostra di essere una persona inaffidabile, perché è così che loro credono vada il mondo. […] non gli voglio dare la soddisfazione di avere ragione»
Charlie Parker: un martire, ma anche un padre per la musica e per la nazione americane.

Bird è nato nel 1988, stretto tra due film che trattano della crescita di giovani uomini riottosi alle regole, anche se affrontano il tema con una certa superficialità, a causa di una troppo forte aderenza ai meccanismi di genere: Gunny (1986), è ambientato in un campo di addestramento per marine, mentre La recluta (1990) vede un maturo poliziotto aiutare un giovane ‘figlio di papà’ a diventare uomo. In entrambi i casi, Eastwood, davanti e dietro la mdp, delinea personaggi di uomini rudi, senza figli naturali, ma con tanti altri cuccioli da istruire e indirizzare.
Eppure l’attore-regista non rinuncia a continuare sulla strada di de-costruzione e ironica presa in giro di se stesso in quanto personaggio-mito, cominciata con la ‘cura’ apportata da film come La notte brava del soldato Jonathan e Gli avvoltoi hanno fame di Don Siegel, o a Bronco Billy e Honkytonk Man: voce caricaturalmente afona, fisicità fin troppo esplicita, anticomunismo a go-go, letture di riviste femminili per cercare di comprendere l’animo di una moglie perduta, così come la costrizione a subire le avances di una Sonia Braga sadica torturatrice di corpi.

Negli anni Novanta, però, per Clint Eastwood si aprirà una stagione di crescita artistica grazie alla quale raggiungerà vette di inimmaginabile poesia.
Per i primi film di questo splendido periodo, si può parlare di una trilogia sulla paternità, analizzata in tre diverse e consequenziali accezioni, in opere che contribuiranno a mettere in discussione le fondamenta dello stesso Mito americano: ne Gli spietati (1992) osserviamo il bisogno di denaro e di una ‘borghese’ e durevole sicurezza; in Un mondo perfetto (1993) assistiamo a una fuga alla ricerca del padre; in I ponti di Madison County (1995), invece, ci troviamo di fronte a un cosciente rifiuto della paternità.

Gli spietati è una pietra miliare per l’intero genere western e la sua definitiva lapide, tanto che a questo non è rimasto che rinascere sotto le mentite spoglie dell’ambientazione moderna; è il film ‘ultimo’ che ci ha mostrato il cinismo hobbesiano dell’uomo contro uomo, il punto di non ritorno della rappresentazione dell’animalesca asocialità umana e un’indagine sulle radici della violenza nella società americana (così come Gangs of New York e Bowling a Columbine anni dopo) e sulla distruzione, quindi, della sua stessa mitologia, cinematografica e non. Ma ciò che ancora più sconvolge, oltre alla freddezza della messa in scena, è l’accettazione della violenza in quanto innervatura e sostanza di cui l’America si nutre: perché il sanguinario William Munny, vedovo di una giovane moglie, intascata la taglia per ‘una giusta causa’, tornerà dai suoi figlioli, per trasferirsi poi assieme a loro a San Francisco, dove potrà arricchirsi da buon borghese, come il tipico americano medio, ed edificare il suo pezzetto di Sogno. Senza rimorso ucciderà un giovane cow-boy, colpevole di nulla, solo perché si tratta del suo ‘lavoro’; mentre il ragazzo che lo ha seguito nell’avventura, ripudierà poi ogni suo insegnamento.
Il film è collocato nei giorni dell’omicidio di Lincoln, padre di una nazione rimasta ormai senza guida.

Un mondo perfetto è stato realizzato nel 1993, trent’anni dopo i fatti di Dallas che videro la morte del padre del nuovo Sogno americano: e John Kennedy viene spesso indirettamente menzionato, per l’attesa generata dalla sua visita in Texas, il medesimo giorno in cui viene ucciso un ladro cui non è stata data un’altra possibilità, ossia il Butch Haynes interpretato da Kevin Costner, uomo cresciuto senza padre, e diventato genitore di un bambino non suo, che ha sequestrato, ma che in lui ha trovato la figura maschile che non ha mai avuto.
Butch, per salvare il piccolo Phillip (che poi ribattezzerà Buzz, per nasconderlo, ma anche per renderlo simile a sé: ovvero, suo ‘figlio’), ucciderà il suo sadico compagno di fuga; saprà essere una guida premurosa che renderà adulto un bambino che, cresciuto con tre donne, imparerà anche a rubare e a sparare, ferendo il suo magister vitae e consegnandolo alla morte.
Certamente Butch è più affettuoso di quanto tanti padri, che incontra sulla sua strada, siano coi loro figli. E certamente grande colpa dei suoi problemi è da addebitare all’ispettore Red Garnett (Clint Eastwood) che, molti anni prima, non volle che tornasse a vivere col padre, un delinquente inguaribile, preferendo affidarlo al riformatorio.
Perché le colpe dei Padri ricadono sempre sui Figli.

I ponti di Madison County (1995), invece, parte dall’assunto che i sogni, nell’America dei Sessanta, sono già finiti, anche se sono trascorsi solamente due anni dalla morte di JFK; e, di concerto, non appaiono figure realmente paterne. Robert Kincaid (Clint Eastwood) è uno sradicato fotografo del National Geographic che crede «di avere bisogno di tutti: amo le persone, vorrei conoscerle tutte», in un estremo sogno di ricerca di un’anarchica libertà, scevra da qualsiasi legame stabile e duraturo, donne o figli che siano, disturbato da «questo senso della morale familiare americana»: la perdita di una falsa innocenza, in favore di un’altra, nuova e più ‘vera’?
Per quanto il film precedente era incentrato su una linea di discendenza maschile, tanto questo è il primo film di Eastwood raccontato attraverso il punto di vista di una donna: la decisione di puntare tutto sullo sguardo di Francesca (Meryl Streep) ha ancora più escluso suo marito, un brav’uomo, pieno d’amore per lei (e i figli), ma senza la passione, la quale sempre muore assieme al matrimonio; un uomo che probabilmente è totalmente padre, ma che, in quanto marito, si è posizionato sullo sfondo.

Padri che puniscono e vengono puniti a causa di gravi tradimenti.
In Potere assoluto (1997) Eastwood impersona Luther Whitney, ladro di professione, che mai ha potuto essere vicino alla sua unica figlia, ma che sempre la ha osservata e ritratta da lontano. Ucciderà per lei, una volta riavvicinatosi, perché testimone di un delitto in cui è coinvolto il Presidente degli Stati Uniti, per colpa del quale è stata uccisa la moglie del suo padre putativo, colui che lo ha portato fin lì, ma che poi porrà fine ai giorni del figlioccio.
Fino a prova contraria (1999). Un padre deve sapersi meritare l’amore di una figlia e di una moglie: ma forse è più difficile nel caso di un giornalista bianco, donnaiolo e ubriacone, piuttosto che per il suo doppio, un detenuto nero ingiustamente condannato a morte, ma che ha sempre avuto accanto la propria famiglia. Il cronista perderà la casa e gli affetti, ma salverà l’altro. Vi è anche una figura paterna che esce completamente sconfitta: è il sacerdote, cattolico, del penitenziario, che non sa compiere i suoi doveri di padre spirituale.

I due capolavori Mystic River (2003) e Million Dollar Baby (2004) insieme possono essere presi come esempio di estrema abnegazione di un padre per una figlia: entrambi hanno al centro personaggi di origine irlandese, credenti, ma che, vivendo nel tormento, non ascolteranno i dettami della loro religione.
Jimmy Markum (Sean Penn) è il doppio malvagio di Frankie Dunn (Clint Eastwood), così come Katie è il nome delle loro figlie: quella di Jimmy è morta, quella di Frankie non vuole più saperne di lui. Jimmy è un delinquente che intorno a sé ha solo adulatori che lo considerano un vero uomo, come se lui provenisse dal passato, e che ogni mese mantiene la famiglia di uno che ha ucciso per vendetta, facendone le veci di padre assente; Frankie è un anziano sconfitto dalla vita, che non è mai riuscito a dare un’occasione agli altri suoi figli (i suoi pugili), che pensa sempre al passato e alla sua figlia naturale, ma che sa vivere nel presente e apprezzare l’altra figlia, quella che sa amarlo. Secondo Jimmy la morte si affronta da soli; Frankie rimarrà vicino, fino alla fine, alla ‘sua’ piccola Maggie. Jimmy si appropria delle vite altrui, Frankie sa restituire un’esistenza a chi non ne ha più nessuna.
In Mystic River la figura del padre viene amplificata grazie alla presenza di Dave (Tim Robbins) e di Sean (Kevin Bacon), tutti coinvolti in un universo di destini incrociati: il primo è amorevole, ma appare come un bambino, legato al trauma d’infanzia di quando subì violenza (perché non aveva nessuno a proteggerlo), mentre ora, oltre vent’anni dopo, proprio il voler difendere un adolescente segnerà la sua fine; l’altro, invece, si salverà, anche se sconvolto dall’orrore che ha visto, con in braccio la figlia neonata che incontrerà solo al termine del suo percorso.

Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima (2006) sono stati realizzati in quanto facce contrapposte e combacianti, indispensabili l’una all’altra, di un dittico che ritrae la generazione che ha combattuto nella Seconda guerra mondiale sul Pacifico, provenendo da est e da ovest, gli uni contro gli altri, ma ormai riuniti nella morte e nei lontani ricordi della Storia. E questa operazione artistica, da un punto di vista teorico, si è spinta molto lontano, pur nella sua semplicità di ideazione: perché giapponesi e americani sono divisi da una sottile linea rossa, varcata la quale, lo spettatore non può che cadere nella follia della perdita di sé e delle proprie certezze, come se dovesse ammainare le bandiere dei propri padri, per riconoscere nel nemico un Uomo in quanto tale, e non più un’apparenza creata dall’immaginario collettivo cui appartiene.
In entrambi i film vi sono figure maschili che, come è tipico nei film di guerra, coprono il ventaglio di caratteristiche che dal sadismo giunge fino alla massima considerazione verso i sottoposti. Ma solo una può essere valutata come realmente paterna: si tratta del generale Kuribayashi (Ken Watanabe), padre degno del rispetto di qualsiasi soldato e inumato dall’unico che è riuscito a salvare, per poter rimanere nella terra dei suoi antenati.


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