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Dead Souls

Pubblicato il 11 maggio 2018 da Anton Giulio Onofri

VOTO:

Dead Souls

Austera, rigorosa, ‘punitiva’, l’opera di Wang Bing è la forma più pura ed essenziale di un cinema agli antipodi di qualunque idea di ‘intrattenimento’. È lui stesso a filmare, sempre, con qualunque mezzo anche basico e rudimentale che la tecnologia gli abbia via via messo a disposizione negli anni di questo secolo. Dopo The Ditch (I dannati di Jiabiangou), inserito come film sorpresa a Venezia nel 2010, Wang Bing ha abbandonato il cinema di finzione e ha scelto la strada del documentario, animato da un’etica interiore che lo ha portato ad usare la macchina da presa come strumento di documentazione e denuncia delle contraddizioni e delle gigantesche problematiche sociali del suo paese, la Cina. Ma è proprio a The Ditch che questo suo ultimissimo Dead Souls (‘anime morte’, come quelle di Gogol, persone ormai morte che lo erano già quando erano in vita) fa riferimento: è infatti un lavoro di documentazione iniziato nel 2005, quando il regista intervistò, a lungo ed esaurientemente, i sopravvissuti ormai ultraottuagenari dei campi di rieducazione di Jiabiangou o di Mingshui, dove verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso venivano confinati dal Partito Comunista Cinese professionisti, intellettuali, professori di liceo, colpevoli di aver semplicemente criticato un articolo di giornale, o avanzato dubbi anche moderati sull’opportunità e la bontà di questa o quella scelta del Partito. Là, nel deserto dei Gobi, i condannati vivevano in condizioni disumane, costretti a lavori forzati impossibili e totalmente inutili per via dell’inospitalità e dell’infertilità del territorio, si ammalavano in fretta e altrettanto velocemente morivano. Su circa 3000 deportati ne sono sopravvissuti appena un decimo, alcuni irreversibilmente segnati da un’esperienza così distruttiva, altri, miracolosamente, hanno per modo di dire superato l’incubo riuscendo a reinserirsi in quella società cinese in via di trasformazione dagli anni ’70 in poi, che poco a poco ha riabilitato chi nel frattempo non era andato all’altro mondo. Questo cumulo di interviste servirà poi come traccia per realizzare The Ditch, ma avendo in seguito trovato altri soldi per proseguire l’inchiesta, Wang Bing ha rintracciato altri superstiti, ormai arrivati agli 85/90 anni, per arricchire il bagaglio di queste testimonianze sconvolgenti raccolte in extremis (quasi tutti gli anziani che vediamo inquadrati per venti, a volte anche per trenta minuti consecutivi, nel frattempo ‘ci hanno lasciato’, come annunciato dai diversi cartelli inseriti al termine di ciascuna intervista), filmate con tecniche digitali più avanzate, ma anch’esse pochissimo editate, tranne qualche raro taglio (marcato da brevissimi istanti di schermo nero).

Dote peculiare dell’occhio registico di Wang Bing è che, caso se non unico, comunque rarissimo nel cinema contemporaneo, anche in una sua inquadratura fissa e imperfetta è riconoscibile il suo ‘sguardo’, si avverte la sua presenza di selezionatore di quanto l’inquadratura ci mostra, e se anche la macchina da presa viene spostata o ruotata sul cavalletto mentre il soggetto dell’intervista sta ancora parlando, per correggere il quadro o arrivare a riprendere qualcosa o qualcuno che nel frattempo si sono introdotti nel campo visivo, anche in quei momenti è avvertibile con evidenza la mano di Wang Bing che sposta, zooma, alza o abbassa l’obbiettivo; e quello che in una regolare intervista televisiva sarebbe da qualunque capostruttura ritenuto un errore da correggere o coprire con un ’fegatello’, contiene invece l’essenza del suo cinema. A dimostrazione di quanto affermato basterebbe l’attimo in cui uno dei sopravvissuti ai campi di prigionia racconta di come la pessima alimentazione gli avesse gonfiato le gambe al punto che per defecare gli era impossibile stare seduto: era dunque costretto a inginocchiarsi, e inarcando la schiena abbassarsi con la faccia fino a terra: nel mimare l’esatta posizione di quella situazione umiliante e dolorosa, chinandosi il soggetto esce ovviamente dall’inquadratura, e prontamente Wang Bing lo segue spingendo verso il basso la telecamerina fissata sul cavalletto, senza preoccuparsi di quanto brusco possa risultare il movimento, restituendoci la sensazione fisica della dolorosa coercizione di un’azione così penosa e innaturale... Il suo obbiettivo e il suo occhio miracolato dal cinema coincidono senza tregua: restano invece immobili quando il ricordo solleva per alcuni terribili istanti il coperchio di un vaso di Pandora così colmo di macabro orrore su quei volti loquaci e disponibili, improvvisamente oscurati dal tonfo di un dolore incancellabile.

La durata di oltre 8 ore non indica il tempo necessario per la visione integrale di un film documentario come Dead Souls, ma la necessità di ricostruire, attraverso l’accumulo delle testimonianze dirette di persone che oggi non ci sono più, un monumento ingombrante e fuori misura al ricordo di una tragedia dimenticata, di una vergognosa pagina storica che, come tante, troppe altre, rischierebbe di venire archiviata senza lasciare traccia, come cento, mille altri capitoli della storia dell’umanità marchiati dall’abuso di una crudeltà inammissibile. Wang Bing si fa carico, con il suo cinema, di risbatterci in faccia tanta vergogna, consapevole di vivere in un paese che si avvia ad entrare nella terza decade del terzo millennio infervorato, anzi addirittura ubriaco di boom economico, ma totalmente ignaro del proprio recentissimo passato di morte e desolazione etica e morale. Un cinema che non assolve, che non redime, che non consola; ma un cinema che ‘guarda’, consapevole fino al più remoto angolo dell’inquadratura della tragicità di quanto mostra. La soggettiva finale in piano sequenza della telecamerina a mano che si aggira per i campi di prigionia oggi dismessi e abbandonati, abbassandosi ad osservare teschi e ossa umane, per poi riprendere ad avanzare col passo traballante di chi stia via via perdendo il senno, bruscamente interrotta dal nero dei titoli finali che iniziano a scorrere, è tra le cose più alte viste in questo secolo ventunesimo, perché ci dice che il cinema non finisce con quello stacco a nero: il cinema è anche in quel nero, che deve rimanerci addosso per tutto il tempo che resteremo vivi.


CAST & CREDITS

(Dead Souls/Les Âmes Mortes); Regia: Wang Bing; sceneggiatura: Wang Bing; fotografia: Wang Bing, Xiaohui Shan, Yang Song; montaggio: Catherine Rascon; produzione: Les Films D’Ici, Adok Films; origine: Cina, 2018; durata: 496’


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